Alèssio I (imperatore d’Oriente) (Tante di queste informazioni
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Comneno, imperatore d'Oriente (? 1048-Costantinopoli 1118). Esponente dell'aristocrazia
militare in rivolta contro l'aristocrazia burocratica dominante nella capitale,
fu acclamato imperatore in Tracia e incoronato a Costantinopoli (1081), che
conquistò senza incontrare resistenza da parte dell'avversario Niceforo
III Botoniate. Buon soldato, amministratore e soprattutto diplomatico, attese
alla riorganizzazione e alla pacificazione interna dell'impero e condusse con
successo alcune importanti azioni militari: contro Roberto il Guiscardo in Albania
e in Macedonia (1081-85), contro i Peceneghi in Tracia (1087-91) e, a più
riprese, contro i Turchi in Asia. Dal 1096 fu impegnato nelle vicende della
I Crociata, svoltasi complessivamente in contrasto con le sue aspirazioni di
ricuperare effettivamente all'impero i territori liberati dai crociati in Asia.
Con la concessione di ampi privilegi (1082) assicurò la fortuna commerciale
e politica di Venezia in Oriente. Fonte principale per la sua storia è
l'Alessiade, scritta dalla figlia Anna Comnena. ? A. fu anche autore di scritti
teologici, nel metodo dialettico positivo affrancato dalla cavillosa tradizione
orientale, che rispecchiano la sua aspirazione alla chiarezza, corrispettiva
del suo desiderio di pace. Oltre a una Preghiera in 100 dodecasillabi giambici
e ad alcuni Epitaffi in versi, scrisse un poemetto, Le Muse, testamento politico
e breviario di saggezza pratica, affettuosamente dedicato al figlio Giovanni,
destinato a succedergli.
Antiòchia (città dell’Asia minore)
(greco Antiócheia), denominazione di numerose città dell'antichità
classica, in gran parte situate in Asia Minore e fondate in onore di vari re
seleucidi di nome Antioco (sec. III-I a. C.). Tra le altre: Antiochia di Caria
e Antiochia ad Meandrum, nella Caria; Antiochia al Crago, nella Cilicia Tracheia;
Antiochia nella Margiana (attuale Turkmenistan), nei pressi di Merv (Mary);
Antiochia sull'Oronte (o di Siria) e Antiochia di Pisidia.
cavalière
Lessico
(ant. cavalièro e cavallière), sm. [sec. XII; dal provenz. cavalier,
che risale al latino tardo caballarius, palafreniere, da caballus, cavallo].
1) Chi sta, viaggia o va abitualmente a cavallo: il cavaliere arrivò
al galoppo; essere un buon cavaliere, essere esperto e abile nel cavalcare.
In partic., chi partecipa a gare di equitazione.
2) Ant., guerriero a cavallo: “si vedea davanti / passar distinti i cavalieri
e i fanti” (Tasso). Più di recente, soldato dell'arma di cavalleria,
in particolare dei reggimenti Piemonte e Savoia.
3) Presso i Romani antichi, appartenente all'ordine equestre.
4) Nel Medioevo, chi apparteneva alla cavalleria: fare, creare cavalieri; “oh
gran bontà de' cavalieri antiqui!” (Ariosto); in particolare: cavalieri
erranti o di ventura, nome dato nei poemi e nei romanzi cavallereschi ai cavalieri
che giravano il mondo alla ricerca di nobili imprese da compiere, assumendosi
la difesa dei deboli e degli oppressi. In particolare, cavalieri della Tavola
Rotonda, guerrieri del leggendario re Artù (tra cui i famosi: Lancillotto,
Ivano, Parsifal, Galaad), eletti dalla letteratura europea a modello di perfetta
cavalleria. La Tavola Rotonda, intorno a cui si disponevano i cavalieri chiamati
a corte da Artù, non prevedendo posti d'onore, era il simbolo dell'assoluta
eguaglianza dei cavalieri. Attorno alle loro imprese fiorirono le leggende del
ciclo brettone che trovarono in Chrétien de Troyes il cantore più
organico e il poeta di un mondo cavalleresco che celebra la vita avventurosa
ed eroica nobilitata dal sacrificio, dall'amore perfetto fino, a volte, alla
sublimazione nell'ideale mistico. Con sensi estensivi: A) guerriero, eroe, campione,
difensore: “vietar l'acquisto / di Palestina ai cavalier di Cristo”
(Tasso); un cavaliere della giustizia sociale. B) Nobile, aristocratico (opposto
a plebeo). In senso fig., persona di animo nobile e generoso; chi si comporta
con signorile educazione e, in particolare, tratta le donne con cortesia e galanteria;
gentiluomo: un inchino da vero cavaliere; è il tipo di cavaliere che
le signore apprezzano. C) L'uomo che accompagna una dama e balla con lei durante
manifestazioni mondane; più in genere, chi offre gentilmente il proprio
aiuto e la propria compagnia a una signora o signorina: se permette, le farò
io da cavaliere. In particolare: cavaliere servente, accompagnatore ufficiale
e abituale di una dama dedito interamente al suo servizio secondo il costume
settecentesco; cicisbeo; fig., corteggiatore assiduo, damerino.
5) Titolo nobiliare d'origine feudale.
6) Appartenente a uno degli ordini cavallereschi costituiti nel passato o conferiti
più recentemente dal pubblico potere per meriti particolari; il grado
onorifico spettante a ciascun membro.
7) Ant., elevazione di terra o di fabbrica, a figura circolare oppure poligonale,
che sovrasta tutte le altre parti di una fortezza. Per estensione: essere, stare
a cavaliere di un luogo, in posizione elevata e dominante; fig.: a cavaliere
di due secoli, fra l'uno e l'altro.
8) Ant., il cavallo degli scacchi: “gli leva con un alfiere il cavaliere”
(Boccaccio).
9) Regionale, baco da seta.
10) Cavaliere d'oro, nome dato nel sec. XV alle monete d'oro col tipo del sovrano
a cavallo. Tra le monete con tale denominazione le più note furono quelle
di Giovanni II di Castiglia (1405-1454), del valore di 20 doblas, e i filippi
d'oro di Filippo il Buono duca di Borgogna (1439).
11) In anatomia, cavaliere dell'aorta, biforcazione con cui termina l'aorta
addominale e da cui si dipartono le due arterie iliache comuni.
Storia
Nell'antica Roma i cavalieri (ordo equester) si procuravano a proprie spese
il cavallo (equites equo privato), affiancati per esigenze militari dai censori
ai cavalieri iscritti nelle 18 centurie degli equites equo publico, forse fin
dal sec. III a. C. Avendo la legge Claudia (218 a. C.) vietato ai senatori e
ai loro figli l'esercizio di attività commerciali, queste vennero monopolizzate
dai cavalieri, che assunsero altresì gli appalti di lavori pubblici e
di riscossione delle imposte, spesso formando società di pubblicani.
Distinti dai senatori e dagli altri cittadini, anche per segni onorifici esteriori,
dopo G. Gracco (123-122 a. C.), essi ebbero contrasti e rivalità con
il ceto senatorio, soprattutto per quanto concerneva la composizione delle quaestiones
perpetuae. Augusto creò una categoria di equites equo publico divisa
in 6 turmae, ciascuna comandata da un sevir. Dai predetti equites venne tratta
la burocrazia imperiale non ereditaria, la quale godeva, tuttavia, come i senatori,
di privilegi in campo pubblico e privato. Gli equites potevano o venire promossi
senatorii, oppure ottenerne i distintivi onorifici. Durante la monarchia assoluta
rimase in vita la distinzione fra humiliores e honestiores e, fra questi ultimi,
in membri dell'ordo equester e dell'ordo senatorius. ? Nel Medioevo il cavaliere
era il milite proveniente dal ramo cadetto della bassa nobiltà che, dalla
seconda metà del sec. XI, viveva al di fuori del feudo in cerca di una
posizione indipendente. A seconda delle loro scelte i cavalieri si dividevano
in: cavalieri di croce, milizia ecclesiastica sottoposta a regole religiose
come i cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme (che dal 1530 si chiamarono
cavalieri di Malta), i Templari, i cavalieri di Santa Maria di Gerusalemme,
i cavalieri di Calatrava, ecc.; cavalieri di collana, insigniti di un ordine
equestre per aver onorato la milizia a cui appartenevano: tra questi ordini
si ricordano quelli della Giarrettiera, dell'Annunziata, del Toson d'oro, ecc.;
cavaliere di sprone, titolo di poco conto distribuito dal principe senza un
preciso corrispettivo di meriti. In età comunale cavaliere era il titolo
degli ufficiali di basso grado gravitanti attorno ai rettori di giustizia con
mansioni di polizia; con il principato il cavaliere si confuse sempre più
con il personale del bargello; meno spesso lo s'incontrava come cavaliere compagno
o cavaliere di corte. ? Dopo il sec. XVII, nella scala gerarchica dei titoli
nobiliari indicò l'ultimo gradino, preceduto da quello di nobile. La
corona di cavaliere, quando il titolo sia trasmissibile ereditariamente, è
un cerchio d'oro brunito ai margini sostenente quattro perle (tre visibili).
Negli ordini cavallereschi i cavalieri possono, in generale, appartenere a due
classi: quella dei cavalieri di giustizia, quando abbiano dato prove di nobiltà
ereditaria, e quella dei cavalieri di grazia, quando abbiano ottenuto il titolo
per meriti propri e per concessione dell'ordine. ? In tempi moderni cavaliere
è solo un titolo onorifico conferito a un cittadino per meriti speciali.
In Italia, sotto il regno, si avevano i cavalieri della Corona d'Italia; oggi
si hanno i cavalieri al merito della Repubblica e i cavalieri al merito del
Lavoro.
Clermont-Ferrand, concili di-
serie di concili celebrati tra il 525 e il 1296 a Clermont-Ferrand. Tra i
principali: quello presieduto nel 1095 da Urbano II, che vi proclamò
la I Crociata; quello celebrato nel 1130 da Innocenzo II contro l'antipapa Anacleto
II e per una riforma della disciplina ecclesiastica; quello tenuto nel 1163
da Alessandro III contro l'antipapa Vittore IV.
crociata
Lessico
sf. [sec. XIII; da crociato].
1) Ciascuna delle guerre combattute dai cristiani contro gli infedeli per liberare
il sepolcro di Cristo e conquistare la Terra Santa: bandire una crociata; partire
per la crociata. Per estens., ciascuna delle spedizioni militari indette contro
gli eretici. Fig., nella loc. bandire, gridare la crociata addosso a uno, dirne
male, provocare nei confronti di qualcuno biasimo o persecuzioni.
2) Fig., campagna pubblica, azione sociale intrapresa a difesa di determinati
principi morali, culturali, ecc. o per il raggiungimento di scopi umanitari:
crociata contro l'analfabetismo, la fame, le malattie.
Storia: generalità
Il termine compare nel latino medievale a metà del sec. XIII, deriva
da “crucesignati” (croisés), combattenti sotto l'insegna
della croce, e designa le imprese dirette a liberare il Santo Sepolcro dai musulmani
indette e benedette dai papi. La crociata è in origine un pellegrinaggio
armato, dominato dallo spirito religioso; ma nasce già, alla fine del
sec. XI, da esigenze profane: sete di nuove terre per l'eccedenza demografica
dei Paesi occidentali, spirito d'intraprendenza di mercanti e d'avventura di
cavalieri e di plebei. La conquista araba del sec. VII non aveva ostacolato
il flusso dei pellegrini in Terra Santa. Ma la distruzione del Santo Sepolcro
a opera del califfo al-Hakim nel 1009 destò grande emozione nel mondo
cristiano, che, avvicinandosi il millenario della Crocefissione, da un lato
intensificò i pellegrinaggi e li segnò di un'impronta di ostilità,
e d'altro lato inasprì quella controffensiva cristiana che, con alterni
successi, e senza alcuna unità d'azione, era in corso su tutte le frontiere
marittime e terrestri tra il mondo della Mezzaluna e il mondo della Croce. All'avanguardia,
la Spagna libera, le Repubbliche marinare, i Normanni d'Italia e Bisanzio. Ma
anche dall'altra parte, dopo una serie di crisi, gli infedeli ripresero vigore,
quando, a partire dalla fine del sec. X, la bandiera dell'islamismo fu strappata
agli Arabi dai Turchi Selgiuchidi, più primitivi, bellicosi e fanatici.
Impostisi al Califfato di Baghdad, che avevano dapprima servito, nel sec. XI
conquistarono il Khorasan, la Persia, la Mesopotamia (Baghdad, 1055), l'Egitto,
la Siria e infine Gerusalemme (1070). L'anno seguente l'imperatore bizantino
Romano IV Diogene, che aveva cercato di contrastarli in Armenia e in Asia Minore,
fu vinto e preso prigioniero a Manazkert (1071).
Storia: la prima crociata
La lotta che i cristiani combattevano contro l'Islam , senza unità (né
concordia), era insufficiente a contenere la minaccia turca. A rendere più
difficile un'intesa era inoltre intervenuta la separazione della Chiesa romana
dalla Chiesa bizantina, provocata dal patriarca di Costantinopoli, Michele Cerulario,
e sancita da Michele VI (Scisma d'Oriente, 1054). A papa Gregorio VII si era
rivolto per aiuto l'imperatore d'Oriente Michele VII; ma Gregorio, pur avvertendo,
come già prima di lui Silvestro II e Sergio IV, la necessità di
una impresa comune contro i musulmani, impegnato nella lotta delle investiture,
non poté prendere iniziative. Diversa situazione trovò la richiesta
d'aiuto dell'imperatore Alessio I Comneno (1081-1118) al papa Urbano II: la
Chiesa di Roma aveva rafforzato la sua autorità e tutta la cristianità
era stata dolorosamente colpita dalla sconfitta di Zalaca in Spagna e dalla
contemporanea caduta di Gerusalemme in mano ai Turchi (1086). La minaccia dell'Islam
apparve tanto grave che il pontefice Urbano II (1088-99) credette giunto il
momento di bandire la guerra santa, non solo per difendere i cristiani d'Oriente,
ma anche per liberare Gerusalemme. Urbano II convocò un concilio a Piacenza
(marzo 1095), dove lo raggiunse un'ambasceria bizantina per chiedere l'invio
di guerrieri occidentali in difesa della Chiesa d'Oriente. Il papa parlò
allora della necessità di aiutare i cristiani orientali, ma nel novembre
dello stesso anno, in un secondo concilio, a Clermont, dopo aver ricordato le
sofferenze dei cristiani d'Oriente, espose esplicitamente il programma della
guerra santa, doverosa e meritoria per tutti i fedeli validi, per la liberazione
di Gerusalemme, e terminò citando Matteo (16, 24): “Se qualcuno
vuole seguirmi, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” .
La folla, esaltata e commossa, al grido di “Deus lo vult!” (Dio
lo vuole!), giurò di prendere la croce e, come segno visibile del loro
voto, i volontari fregiarono i loro abiti con una croce di stoffa, simbolo non
solo di fede ma anche di appartenenza a una nuova comunità di pellegrini
armati, protetti da particolari privilegi spirituali e materiali. Capo della
spedizione fu il legato pontificio Ademaro di Monteil, vescovo di Puy. Il papa
si era rivolto soprattutto alla nobiltà francese del sud della Loira;
ma al suo appello risposero anche Provenzali e Lorenesi, guidati questi da Goffredo
di Buglione duca della Bassa Lorena, con i fratelli Baldovino ed Eustachio,
i cavalieri francesi di Ugo di Vermandois, fratello del re Filippo I, Roberto
duca di Normandia, i conti di Champagne e di Fiandra, il conte Raimondo di Tolosa;
a questi poi si aggiunsero i Normanni d'Italia guidati da Boemondo d'Altavilla,
principe di Taranto, e da Tancredi suo nipote. Non solo grandi nobili si fecero
crociati, ma anche cavalieri, cadetti di grandi famiglie con grandi ambizioni
e magre risorse, e una gran massa di popolani, dai mercanti in cerca di guadagno
ai servi in cerca di libertà, agli avventurieri che non avevano niente
da perdere. La crociata dei signori fu anzi preceduta da quella cosiddetta dei
pezzenti: popolani che, esaltati dalla predicazione di Pietro d'Amiens, detto
l'Eremita, senza attendere la data prevista per l'inizio della spedizione vera
e propria (15 agosto 1096), partirono, senza idea di ritorno, allo sbaraglio,
molti portando seco moglie e figli; un'altra schiera parimenti disorganizzata
e fanatica seguì un Gualtieri Senza Averi. Entrambe le schiere giunsero
decimate a Costantinopoli; i superstiti, passato il Bosforo, furono annientati
dai Turchi (ottobre 1096). Gualtieri perdette la vita; Pietro l'Eremita, salvato
dai Bizantini, seguì poi la crociata dei signori, ben altrimenti preparata,
che raggiunsero Costantinopoli in quattro distinti gruppi, per vie diverse:
quelli della Francia settentrionale, con Ugo di Vermandois, per l'Italia e l'Epiro;
quelli della Francia meridionale, con Raimondo di Tolosa, per l'Italia settentrionale,
la Croazia e l'Epiro; i Lorenesi, con Goffredo di Buglione, per la Germania,
la valle del Danubio, i Balcani; i Normanni d'Italia, con Boemondo e Tancredi
d'Altavilla, per l'Adriatico e l'Epiro. Stando a una tradizione, che pecca certo
per eccesso, 300.000 uomini, all'inizio del 1097, si congiunsero sotto Costantinopoli.
A questo punto iniziarono le difficoltà: l'imperatore Alessio I Comneno
non s'attendeva tanto; aveva contato solo su un buon contingente di mercenari.
Si trovava invece di fronte a una milizia con una sua strategia di conquista,
e con precedenti allarmanti di indisciplina, di prepotenza e di violenze (come
quelle, nel corso del viaggio, a danno delle comunità ebraiche), e temeva
che le terre, strappate dai crociati ai Turchi, non sarebbero state più
restituite all'impero. Pose quindi, ai crociati, come condizione per trasportarli
oltre il Bosforo, aiutarli e vettovagliarli, che essi giurassero di rendere
le province riconquistate: richiesta che essi accettarono con grande riluttanza
e dopo laboriose e aspre trattative. Passati in Asia, i crociati posero l'assedio
a Nicea (maggio 1097), che, soccorsa invano da Kilidj-Arslan, sultano di Rum,
si arrese in giugno e fu consegnata al rappresentante di Alessio. I crociati
occuparono poi Dorileo e, varcato il Tauro, sopportando fame, sete e gravi perdite,
raggiunsero la Siria e posero l'assedio ad Antiochia. Intanto Baldovino (poi,
nel 1100, Baldovino I di Gerusalemme) si faceva signore di Edessa che, elevata
a contea, fu il primo Stato fondato dai crociati (1098). La conquista di Antiochia,
ritardata dall'intervento di forti soccorsi e dall'abbandono del campo da parte
bizantina, fu compiuta grazie al valore e all'abilità di Boemondo d'Altavilla
(giugno 1098), che si fece signore della città, dichiarandosi libero
da ogni legame con l'imperatore bizantino; la crociata aveva così rotto
con Bisanzio. Morto il legato pontificio Ademaro di Monteil vescovo di Le Puy,
solo l'energica azione di Raimondo di Tolosa prima e di Goffredo di Buglione
poi impedì il disgregarsi dei crociati. Il 7 giugno 1099, conquistata
Betlemme, posero l'assedio a Gerusalemme, che nel frattempo era caduta in mano
dei Fatimiti d'Egitto, e il 15 luglio, riforniti dai Genovesi, purificati da
digiuni e preghiere, assalirono e conquistarono la città santa commettendo
inauditi atti di violenza. In agosto, Goffredo di Buglione, riconosciuto capo
militare della crociata, sconfisse ad Ascalona un esercito giunto dall'Egitto
per soccorrere Gerusalemme.
Storia: la conquista di Gerusalemme
I Turchi erano stati privati dalla crociata della parte occidentale dell'Asia
Minore, tornata bizantina, e della Siria e della Palestina, prese dai crociati.
La Palestina e la Fenicia costituirono uno Stato, chiamato Regno di Gerusalemme,
retto da Goffredo di Buglione col titolo di “Difensore del Santo Sepolcro”
(Advocatus Sancti Sepulchri). Nel regno furono introdotte le istituzioni feudali
(adattate in parte alla situazione locale), e ciò fu un elemento di debolezza
per il nuovo Stato. Vassalli del regno gerosolimitano furono le contee di Edessa
e di Tripoli, il marchesato di Tiro, le signorie di Galilea, Tiberiade e Giaffa:
un complesso di territori senza alcuna organicità. L'annuncio della conquista
di Gerusalemme spinse altri a seguire la via aperta dai crociati; ma ben quattro
spedizioni degli inizi del sec. XII – dell'arcivescovo di Milano Anselmo
IV, di Guglielmo II di Nevers, di Guglielmo IX d'Aquitania e di Guelfo (Welf)
IV di Baviera – finirono disastrosamente. Cominciarono invece allora i
crescenti successi delle Repubbliche marinare, che alimentarono di uomini e
di mezzi la crociata altrimenti destinata a esaurirsi: Pisa anzitutto, il cui
vescovo Daimberto, che aveva guidato 120 navi, si fece nominare patriarca di
Gerusalemme con giurisdizione anche sul principato di Antiochia (1102). Anche
Genova aveva inviato una flotta, comandata da Guglielmo Embriaco; e i veneziani
avevano espugnato Smirne e ottenuto da Goffredo di Buglione notevoli privilegi
mercantili. Morto Goffredo, gli succedette il fratello Baldovino I che, lasciata
Edessa, prese per primo il titolo e la corona di re di Gerusalemme (Natale 1100).
Sotto di lui e sotto il suo successore Baldovino II (1118-31) i confini del
regno furono estesi verso il litorale grazie soprattutto alle flotte genovesi
e veneziane . Il regno si consolidò alquanto sotto Folco d'Angiò
(1131-43) e Baldovino III (1143-62) quando le disposizioni legislative emanate
da Goffredo e dai suoi successori furono raccolte in un codice, le cosiddette
Assise di Gerusalemme. Vedi anche Gerusalemme.
Storia: seconda e terza crociata
L'intrinseca debolezza del regno si manifestò alla prima seria controffensiva
musulmana, mentre l'atabeg di Mossul Zengi, con un colpo di mano, s'impadronì
di Edessa (1144) assumendo nel mondo islamico ruolo e fama di “difensore
della fede”. La caduta di Edessa e la richiesta di aiuti spinsero Luigi
VII, re di Francia, a sollecitare dal papa Eugenio III il bando di una crociata
(1145). La predicazione, affidata a S. Bernardo di Clairvaux, ebbe un grande
successo e convinse Luigi VII di Francia e l'imperatore Corrado III a farsi
crociati, ciascuno alla testa di ca. 70.000 uomini; attraverso i Balcani puntarono
separatamente verso Costantinopoli. Sorsero però contrasti con l'imperatore
bizantino Manuele I Comneno, contrasti di cui approfittò Ruggero II re
di Sicilia per conquistare Corfù e Cefalonia. Manuele I si alleò
allora con il sultano di Rum; Corrado III venne così sconfitto a Dorileo
e Luigi VII fu costretto ad abbondonare parte dei crociati per imbarcarsi con
la cavalleria per Antiochia. La diffidenza e la mancanza di collaborazione fra
i crociati pregiudicarono in partenza l'impresa. Riuniti finalmente a Gerusalemme
(giugno 1148) i due sovrani decisero di appoggiare il re Baldovino III in una
spedizione contro Damasco, ma, all'avvicinarsi di Nur ad-Din, figlio di Zengi,
alla testa di un esercito, abbandonarono il campo. La II crociata si ridusse
così a un vano pellegrinaggio. Più tardi Nur ad-Din e poi il suo
successore Salah ad-Din (Saladino) approfittarono largamente dei disordini interni
del regno e quando, dopo una contrastata lotta di successione, la corona passò
a Guido di Lusignano, Salah ad-Din vinse quest'ultimo ad Hattin, presso il lago
di Tiberiade (5 luglio 1187), lo catturò e il 2 ottobre successivo riconquistò
Gerusalemme, rispettandone gli abitanti. Tiro, difesa da Corrado del Monferrato,
riuscì a resistergli. Le notizie delle vittorie di Salah ad-Din spinsero
il papa Clemente III a organizzare la III crociata, predicata dal legato Enrico
d'Albano e dall'arcivescovo di Tiro. Al suo appello risposero Guglielmo II,
re di Sicilia, Federico Barbarossa e i re di Francia e d'Inghilterra, Filippo
II Augusto e Riccardo Cuor di Leone. Il primo a partire alla testa di 100.000
uomini e 20.000 cavalieri fu il Barbarossa che, conquistata Adrianopoli, impose
all'imperatore bizantino, Isacco Angelo che aveva ostacolato i crociati, di
provvedere al trasporto in Asia dell'armata cristiana. Dopo una brillante vittoria
a Iconio (maggio 1190), varcato il Tauro, Federico I morì annegato nel
f. Salef in Cilicia e la sua armata si sciolse. Frattanto, dalla Sicilia, Filippo
Augusto e Riccardo Cuor di Leone veleggiavano verso la Palestina; ma quest'ultimo,
costretto a uno sbarco a Cipro (1190), prese possesso dell'isola appartenente
all'Impero bizantino (1190) e ne divenne poi re (1192). Poco dopo, il 12 luglio
1191, i due sovrani conquistarono Acri. Ma, in seguito a insanabili discordie
con Riccardo, Filippo Augusto tornò in Francia, lasciando Riccardo unico
capo della crociata. Pur avendo sconfitto due volte Salah ad-Din ad Arsuf (settembre
1191) e a Giaffa (agosto 1192), il re d'Inghilterra non poté liberare
Gerusalemme, ma concluse una tregua di tre anni, che prevedeva garanzie per
i pellegrini (1192). Ebbe così fine la III crociata, che valse a impedire
la caduta della Siria franca, contribuendo al sorgere del II regno di Gerusalemme
(così chiamato anche se ridotto ad Acri), destinato a Corrado del Monferrato,
e quindi alla creazione di uno status quo il quale, sotto gli Ayyubiti, successori
di Salah ad-Din, durò circa un secolo.
Storia: quarta crociata e nascita dell'Impero Latino d'Oriente
Dopo la riconquista di Gerusalemme a opera di Salah ad-Din le crociate persero
l'originario carattere di imprese religiose e divennero operazioni militari
con finalità politiche ed economiche, anche se coperte dal segno della
Croce. Il primo e più notevole esempio di crociata di nome, ma non di
spirito, fu la quarta. L'imperatore Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa,
progettò una spedizione in Oriente che avrebbe dovuto non solo liberare
i Luoghi Santi, ma anche vendicare l'imperatore Isacco Angelo, deposto da Alessio
III (1195-1203), ma la sua improvvisa morte (1197) annullò la spedizione.
Poco dopo papa Innocenzo III bandì pure una crociata, nominando suo legato
Pietro Capuano e affidandone la predicazione a Folco di Neully Nessun re rispose
all'appello; risposero molti signori francesi e italiani, che si unirono agli
ordini di Baldovino IX di Fiandra, Teobaldo di Champagne e Bonifacio I del Monferrato;
il doge di Venezia Enrico Dandolo, mancando ai crociati il danaro necessario
per il viaggio, accettò di trasportarli, ma a patto che riconquistassero
Zara, che si era ribellata a Venezia. La deviazione della crociata e la conquista
di questa città cristiana (1202) suscitarono contrasti fra i crociati
e scandalo, e il papa scomunicò i Veneziani. Nell'inverno, a Zara, si
presentò Alessio IV Angelo e propose ai crociati una nuova deviazione
a Costantinopoli, per ristabilire sul trono il padre Isacco II, promettendo
larghe concessioni e la riunione delle due Chiese. Pur fra molte esitazioni,
la proposta fu accettata: i crociati investirono Costantinopoli, la cinsero
d'assedio (in estate) e ne presero possesso : Isacco fu posto sul trono. Non
essendo stati però mantenuti i patti, ed essendoci stata anche una sommossa
contro Isacco e i crociati (per cui questi fu deposto e sostituito da un suo
avversario, Alessio Marzuflo), questi ultimi, il 13 aprile 1204, rovesciarono
fra stragi e saccheggi inauditi l'imperatore bizantino ed elevarono al trono
Baldovino di Fiandra. Nacque così l'Impero latino di Costantinopoli (1204-61)
e l'ex Impero bizantino fu diviso in feudi e Venezia, l'artefice della nuova
situazione, occupò le posizioni costiere e insulari economicamente più
importanti: il doge assunse il titolo di “Signore di una quarta parte
e mezzo dell'impero greco”; Pisa e Genova, sacrificate, divennero irriducibili
avversarie della trionfante Repubblica. I Greci tuttavia riconobbero come loro
legittimo imperatore Teodoro Lascaris, che prese il titolo a Nicea e fomentò
dall'Asia l'ostilità delle popolazioni greche (ortodosse) sottoposte
ai latini (cattolici). L'Impero latino d'Oriente, indebolito dalle rivalità
feudali, dall'opposizione nazionale greca e dalle insidie dell'impero di Nicea,
e isolato dall'Occidente, fu rovesciato il 25 luglio 1261 da Michele VIII Paleologo,
che da Nicea mosse alla riconquista di Costantinopoli aiutato dai Genovesi,
insofferenti dell'onnipotenza di Venezia. Sopravvissero all'Impero latino alcune
signorie feudali: il Ducato di Atene, il Principato di Acaia, le signorie di
Corinto e di Tebe.
Storia: le ultime crociate
Essendo stata deviata la IV crociata, Innocenzo III ne bandì un'altra
(1213), ma la morte (1216) gli impedì di vederla realizzata. La V crociata
(1217-21), a differenza delle altre, vide la partecipazione di pochi francesi,
perché impegnati in patria, sotto la guida di Simone di Montfort, nella
cosiddetta crociata contro gli Albigesi (1209-29), indetta da Innocenzo III.
L'esercito, sotto la guida di Andrea II d'Ungheria e di Leopoldo VI d'Austria,
ai quali si unì Giovanni di Brienne, re titolare di Gerusalemme, assalì,
ma invano, la fortezza del monte Tabor. Allora una parte dei crociati si ritirò
mentre un'altra, al comando di Giovanni di Brienne, passò in Egitto e
conquistò Damietta (1219). Avanzarono poi nella valle del Nilo avendo
come obiettivo Il Cairo; ma, mancando i rinforzi che l'imperatore Federico II
avrebbe dovuto condurre, furono sconfitti e persero Damietta (1221). ? La VI
crociata (1228-29). Costretto da papa Gregorio IX, Federico II, che già
nel 1215 aveva preso la croce, nel 1227 partì per la Siria, ma ritornò
poco dopo l'imbarco col pretesto di una malattia. Scomunicato dal papa, ripartì
l'anno seguente. Il suo, tuttavia, fu più un viaggio diplomatico che
un'impresa militare: infatti l'imperatore, accordatosi con il sultano d'Egitto
al-Kamil (Trattato di Giaffa, 1229) ottenne Gerusalemme, Betlemme, Nazaret e
alcune località costiere fra San Giovanni d'Acri e Giaffa e tra Giaffa
e Gerusalemme; e concluse anche una tregua decennale. Dopo di che Federico II
cinse di propria mano la corona di re di Gerusalemme (su cui vantava dei diritti
in quanto marito di Iolanda di Brienne), essendosi il patriarca rifiutato di
incoronarlo perché scomunicato. La Chiesa non riconobbe tale crociata,
come non aveva riconosciuto la IV. ? La VII crociata (1248-54). Nel settembre
1244 i musulmani riconquistarono Gerusalemme; ma la cristianità, travagliata
da lotte interne, non reagì. Nel Concilio di Lione (1245), tuttavia,
papa Innocenzo IV bandì una crociata che trovò il suo capo in
Luigi IX, re di Francia, il quale organizzò con le sole forze del suo
regno la spedizione. I crociati, sbarcati in Egitto il 16 giugno 1249, occuparono
Damietta, poi, rifiutando di trattare con il sultano, che si offriva di cedere
Gerusalemme, Ascalona e la Galilea orientale, marciarono verso Il Cairo; ma
furono sconfitti a El-Mansura e il re stesso fu fatto prigioniero (6 aprile
1250). Il riscatto suo e dei crociati superstiti costò la restituzione
di Damietta e un'enorme somma di danaro. Recatosi poi in Terra Santa, Luigi
IX, dal 1250 al 1254, rafforzò le piazzeforti francesi di Acri, Cesarea,
Giaffa, Sidone e pacificò il Principato di Antiochia, riconciliandolo
con gli Armeni. Tornò in Francia alla notizia della morte della madre
(1254). ? L'VIII crociata fu intrapresa ancora da Luigi IX per soccorrere i
resti dei domini cristiani in Siria, minacciati ora anche dall'avanzata dei
Mongoli. Il re scelse come prima tappa oltremare Tunisi, dove morì di
peste poco dopo l'arrivo (1270). L'esercito francese, decimato dalla peste,
tornò in patria. Il fratello di Luigi IX, Carlo d'Angiò, re di
Sicilia, che aveva seguito l'impresa, trattò la pace col bey di Tunisi.
La crociata ebbe un seguito in Siria, di scarsa importanza, a opera di Edoardo
I d'Inghilterra. ? Dopo la caduta di Acri, l'ultimo baluardo dei cristiani in
Terra Santa, per opera del sultano d'Egitto al-Asraf Khalil', che piegò
la vigorosa resistenza opposta dai templari e da contingenti francesi e inglesi
(18-28 maggio 1291), furono dette crociate alcune imprese più o meno
rilevanti contro gli infedeli, tutte comunque non paragonabili alle precedenti,
e specialmente alla prima, sia per lo spirito che le ispirò, sia per
le forze che vi si impegnarono. Così furono dette crociate la conquista
di Rodi (che era peraltro bizantina) da parte dei Cavalieri Ospitalieri (1308)
e quella di Smirne, turca, da parte degli Ospitalieri stessi, insieme con Veneziani,
Genovesi e Ciprioti (1344). Dalla seconda metà del sec. XIV, la progressiva
avanzata dei Turchi Ottomani verso il cuore dell'Europa ridiede una certa attualità
all'idea di crociata, intesa però in senso non di guerra santa per la
riaffermazione del cristianesimo in Oriente, ma di guerra per la difesa dell'Occidente
stesso dall'islamismo sulla via di sempre più ampie conquiste. A un appello
di Urbano V, Amedeo VI di Savoia rispose con una crociata che riuscì
brillante, ma senza conseguenze (Gallipoli, 1366). Ben più rilevante
fu l'impresa promossa da Sigismondo d'Ungheria, col concorso di elementi francesi
e tedeschi, per alleggerire la pressione ottomana sul Danubio e liberare la
Penisola Balcanica; ma i crociati furono battuti dal sultano Bayazid I a Nicopoli
(12 settembre 1396). Di nuovo gli Ungheresi, sotto Giovanni Unyadi, rispondendo
all'appello dell'imperatore bizantino Giovanni VIII, e con l'incoraggiamento
del papa Eugenio IV, affrontarono, con pochi alleati polacchi, serbi e valacchi,
i Turchi nei Balcani; ma ancora, dopo alcuni successi, vennero sconfitti da
Murad II a Varna (10 novembre 1444); soccorsi veneziani giunsero troppo tardi.
Un tentativo di rivincita ebbe pure esito disastroso (Kossovo, 1448). Dopo la
caduta di Costantinopoli (1453) e il crollo definitivo dell'Impero bizantino
per opera di Maometto II, Pio II bandì una crociata in cui, nonostante
molte promesse, nessuno osò avventurarsi. Il papa morì ad Ancona,
in attesa dei crociati (1464). E crociata si chiamò ancora l'impresa,
patrocinata da Pio V e a cui parteciparono forze spagnole, veneziane e in misura
minore genovesi, toscane e sabaude, nonché i Cavalieri di Malta, sotto
il comando di Don Giovanni d'Austria, che si concluse con una trionfale ma sterile
vittoria sui Turchi nelle acque di Lepanto (7 ottobre 1571). Concludendo, dopo
il grande successo della I crociata, le posizioni conquistate dai cristiani
nel mondo musulmano regredirono sempre più: la caduta di Acri (1291),
l'insediamento degli Ottomani in Europa (1354) e la loro progressiva conquista
dell'intero Impero bizantino (completata pochi anni dopo la caduta di Costantinopoli),
fino al Danubio e oltre, col relativo dominio dei mari, rappresentano i momenti
più importanti del fallimento delle ultime crociate. Del resto, lo spirito
di crociata, essenzialmente religioso, si era rapidamente esaurito; già
affievolito nel sec. XIII, nel XIV era morto. La nuova società non lo
comportava più.
Storia: conseguenze delle crociate
Le crociate fallirono il loro scopo originario, la liberazione dei Luoghi Santi
dai musulmani. Restano tuttavia un fenomeno storico della massima rilevanza
non solo religiosa, ma politica, economico-sociale, culturale. Politicamente,
impegnarono i musulmani contenendone e ritardandone l'avanzata in Europa, e
ciò permise lo sviluppo degli Stati centro-occidentali. L'Impero bizantino,
a sua volta, pur avendo ostacolato, e non senza ragioni, le crociate, grazie
a esse poté sopravvivere più a lungo, in quanto i Turchi erano
il nemico comune suo e dei crociati. Dal punto di vista sociale, le crociate
offrirono infinite occasioni di affermazione a una feudalità, specialmente
minore, che in Occidente tendeva a esaurirsi in una vita angusta e rissosa,
senza prospettive di migliori posizioni materiali e spirituali: la cavalleria
trovò in Oriente il suo più severo e valido banco di prova. La
borghesia, infine, e con essa i ceti più modesti, vide aprirsi dalle
armi dei crociati gli orizzonti di un'attività commerciale e di un arricchimento
senza precedenti, che costituirono le basi della sua potenza politica. La borghesia
delle Repubbliche marinare italiane fu tra tutte la maggior beneficiaria delle
crociate: Pisani, Genovesi, Veneziani si assicurarono basi commerciali, privilegi,
monopoli e quartieri, logge e fondachi in tutto l'Oriente sempre meno controllato
da Bisanzio; fieramente rivali tra loro, si divisero in certo modo le rispettive
zone d'influenza: Genova, in Siria, sulle coste della Piccola Armenia, sugli
Stretti e nel Mar Nero; Venezia, nell'Egeo, a Cipro, a Creta; Pisa, finché
non fu abbattuta da Genova (1284), sulle coste dell'Africa settentrionale; ma
non esitarono mai a violarle, in vista del predominio assoluto. Ai rapporti
militari e commerciali si accompagnavano naturalmente i rapporti culturali in
senso lato: con le merci (soprattutto merci pregiate: spezie, seterie, metalli
preziosi, gemme) passarono dall'Oriente bizantino e musulmano all'Occidente
anche codici di classici greci e testi arabi, sia originali, sia derivati da
antichi testi greci che in Europa erano sconosciuti o erano andati perduti.
Anche nel campo religioso, gli incontri tra fedi diverse contribuirono a un'apertura
più larga e predisposero alla reciproca comprensione e alla tolleranza.
E pure rilevanti furono l'allargamento delle conoscenze geografiche e l'ambizione
di accrescerle, con nuove e imprevedibili esperienze. Per questi motivi fondamentali,
e per molti altri ancora, le crociate, al di là delle intenzioni dei
loro protagonisti, furono portatrici di stimoli fecondi allo sviluppo della
civiltà europea nel suo complesso e costituiscono quindi una componente
essenziale della sua storia.
Gerusalemme
Generalità
Città (633.700 ab. secondo una stima del 1998) capitale di Israele e
capoluogo dell'omonimo distretto. La città è situata a ca. 800
m sulle colline della Giudea , in favorevole posizione sia per le comunicazioni
tra il mare e la valle del Giordano sia per la difesa, essendo racchiusa per
tre lati da profonde valli, tra cui quella percorsa dal Cedron. Gerusalemme,
costituita da moderni quartieri, è il massimo centro politico e culturale
dello Stato, con un'università, la biblioteca nazionale, istituti superiori,
musei, ecc.; è sede di industrie meccaniche, chimiche, farmaceutiche,
alimentari e del tabacco. Gerusalemme, inoltre, è una delle maggiori
piazze della lavorazione dei diamanti. Nel quadro delle attività economiche
riveste un forte rilievo il settore terziario, che assorbe l'80% della popolazione
attiva. In ebraico, Yerushalayim; in arabo, El Quds.
Storia: dalle origini alla conquista inglese
Già citata in testi egiziani nel sec. XIX a. C., era capitale di un regno
vassallo dell'Egitto nel sec. XIV a. C. Gli abitanti cananei (Gebusei) resistettero
agli Israeliti fino al sec. XI, quando David prese Gerusalemme e ne fece la
capitale del suo regno; Salomone vi costruì il tempio e il palazzo reale.
Dopo la scissione del regno, rimase capitale di Giuda e conobbe alterne vicende
fino all'espugnazione a opera di Nabucodonosor II (598 e 587 a. C.) che distrusse
il tempio, abbatté le mura, deportò la popolazione in Babilonia.
Gerusalemme acquistò allora aspetti mitici: l'esilio fu spiegato come
punizione di colpe e il ritorno fu prospettato come restaurazione morale. Col
ritorno degli esuli consentito da Ciro si ebbe la costruzione del “secondo”
tempio (519 a. C.) e delle mura (452 a. C., con Neemia); le vicende della città
(restaurazione dei Maccabei, distruzione di Pompeo, costruzioni di Erode) culminarono
con la seconda radicale distruzione a opera di Tito (70 d. C.) al termine della
rivolta giudaica, con definitiva scomparsa del tempio e dispersione della popolazione.
La città riacquistò una certa importanza al tempo di Costantino,
quando i luoghi santi divennero centro di culto. Nel 638 fu conquistata dai
musulmani. Dal 1099 al 1187 fu capitale del Regno latino di Gerusalemme. Dopo
aver goduto di una notevole prosperità sotto i Mamelucchi, decadde sensibilmente
una volta conquistata dagli Ottomani che la conservarono, se si eccettua la
parentesi egiziana del 1831-40, dal 1517 al 1917 quando, nel dicembre, fu conquistata
da Allenby. Dal 1920 al 1948 fu capitale della Palestina posta sotto mandato
inglese.
Storia: dalla seconda guerra mondiale al Duemila
Nei piani dell'ONU, Gerusalemme avrebbe dovuto essere internazionalizzata; in
effetti nel 1948 la città venne divisa tra gli Israeliani, che si assicurarono
il settore occidentale, e i Giordani, che conquistarono il settore orientale.
Nel 1950 essa fu scelta come capitale di Israele. Dopo la guerra del 1967, gli
Israeliani riunificarono la città annettendo il settore giordano. Il
30 luglio 1980, sanzionando una realtà di fatto peraltro contestata in
ambito internazionale, la Knesset (Assemblea nazionale israeliana) definiva
Gerusalemme “capitale eterna e indivisibile di Israele”. Si intensificava
anche l'opera di colonizzazione intorno a Gerusalemme , nel tentativo di invertire
una tendenza demografica che vedeva la netta superiorità numerica dei
Palestinesi. L'obiettivo veniva raggiunto all'inizio degli anni Novanta, quando
venivano presi anche numerosi provvedimenti limitativi della libertà
dei Palestinesi. La contestata sovranità sulla città diventava,
insieme con la complessa vicenda arabo-palestinese, una delle ragioni principali
del fallimento delle trattative tra le due parti svolte a Camp David, negli
USA, nel luglio 2000. Alla fine del settembre 2000, in seguito alla provocatoria
visita di Ariel Sharon, leader del partito della destra ebraica, il Likud, alla
Spianata delle Moschee di Gerusalemme (area della città ritenuta sacra
dai musulmani), scoppiavano violentissimi scontri che portavano ben presto a
una nuova Intifada palestinese. La vittoria di Sharon alle elezioni politiche
(febbraio 2001) e la formazione di un governo da lui guidato riportavano Israele
su posizioni di estrema intransigenza rispetto allo statuto da attribuire della
città.
Arte
Scomparsi il palazzo e il tempio di Salomone, i più importanti monumenti
antichi di Gerusalemme appartengono alla fase detta “del secondo tempio”,
ricostruito a opera di Erode dopo il 37 a. C. e di cui rimangono i grandi muri
di sostruzione, gli ingressi meridionali coperti a volta, resti dei ponti (“arco
di Wilson” e “arco di Robinson”) che congiungevano il tempio
al centro della città. Accanto al tempio sono i resti della fortezza
Antonia, così chiamata da Erode in onore di Marco Antonio. Dopo la distruzione
del 70 d. C. e un lungo periodo di abbandono, Gerusalemme fu ricostruita da
Adriano col nome di Aelia Capitolina. Della città romana, costruita secondo
il consueto schema ortogonale, restano tracce nell'impianto urbanistico dell'attuale
città vecchia. Numerose, attorno a Gerusalemme, le necropoli, con tombe
monumentali (tombe dei Re, tomba detta di Erode, tomba dei Benè Hezir
e tombe dette di Zaccaria, di Assalonne e di Giosafat nella Valle di Cedron)
nelle quali si mescolano forme architettoniche orientali ed ellenistiche. Nella
città antica, compresa entro la cinta delle mura medievali, si distinguono
cinque quartieri tradizionali; quello cristiano, quello ebraico, quello musulmano,
quello armeno e infine, a sé stante, l'area compresa nel recinto sacro
musulmano (al-Haram al-Sharif). I monumenti della città presentano un
aspetto assai eterogeneo, dovuto al sovrapporsi nei secoli di civilizzazioni
diverse. Gli edifici costruiti nel periodo che va da Costantino a Giustiniano
furono in gran parte distrutti dall'invasione persiana del 614. Restano, fortemente
alterate, le chiese di S. Giovanni Battista e della Tomba della Vergine, entrambe
del sec. V. Il monumento musulmano più importante è la Qubbat
as-Sahra (Cupola della Roccia, erroneamente detta Moschea di Omar), costruita
dal califfo omayyade !Abd al-Malik tra il 687 e il 691 sulla spianata dell'antico
tempio salomonico, dove affiorava la roccia (sahra) dalla quale Maometto avrebbe
iniziato il suo viaggio verso il cielo e sulla quale Abramo avrebbe dovuto compiere
il sacrificio di Isacco. L'edificio ha pianta ottagonale, con quattro porte
ai punti cardinali che danno accesso a un vano centrale cupolato, circondato
da due gallerie concentriche riservate al rito della deambulazione intorno alla
sahra. La preziosa decorazione musiva delle parti interne è quella originale
del sec. VII; quella esterna fu sostituita nel sec. XVI, a opera di Solimano
il Magnifico, da un paramento di ceramica smaltata. Alle epoche omayyade e abbaside
risale anche la monumentale Moschea Lontana (Masjid al-Aqsa), che conserva un
bellissimo mihrab dell'epoca di Saladino (sec. XII), e un minbar, quasi contemporaneo,
fatto costruire da Norandino come ex voto per la riconquista della città
sui crociati. Al periodo dei Mamelucchi Burgiti risalgono la fontana di Qayt
Bey (1482) e il portale della Madrasa Ashrafiyya. Dal 1517 per circa quattro
secoli Gerusalemme fece parte dei domini ottomani, che soprattutto con Solimano
il Magnifico l'arricchirono di numerose opere d'arte, fra cui le mura fortificate
della cittadella, con la bella Porta di Damasco (1532) e la fontana di Bab el-Silsile
(1537). Al periodo della conquista cristiana risalgono la chiesa di S. Anna
(1130-40), la chiesa di S. Giacomo (sec. XII) e il rifacimento del Santo Sepolcro
(l'edificio originario, dell'epoca di Costantino, era formato da una basilica
unita a un'ampia rotonda). Anche le mura merlate, intervallate regolarmente
da torri e da porte, risalgono alla ricostruzione fattane dai crociati. All'architettura
gotica francese si richiama la Sala del Cenacolo, che i francescani fecero costruire
nel Trecento da maestranze cipriote sul luogo della cosiddetta Tomba di Davide.
Dopo i periodi abbaside e omayyade e la conquista turca vi fu un periodo di
decadenza (sec. XVII-XVIII). Nell'Ottocento e nel primo Novecento sorsero a
Gerusalemme, a opera di Tedeschi, Inglesi, Greci, Francesi, Copti, Armeni, ecc.,
innumerevoli edifici e complessi religiosi nei più diversi stili di imitazione.
Urbanistica
Nel 1917, con l'ingresso del generale Allenby, si aprì per la città
un nuovo momento. Gerusalemme, fino ad allora prevalentemente chiusa nei quartieri
cristiano, armeno, ebreo, arabo, si estese all'esterno del centro storico, in
particolare a W; furono eretti edifici religiosi, ospedali, istituti culturali,
residenze e vennero portati a termine restauri. Si elaborarono vari schemi di
piano regolatore (1918, 1919 da P. Geddes, 1922, 1929, 1930); l'ultimo, nel
1944, ipotizzava un grande anello stradale fuori della città in cui era
prevista l'espansione residenziale, un asse industriale lungo la strada per
Tel Aviv, spazi verdi e una cintura verde (agricola a E, boscosa a W). Il centro
storico era salvaguardato da una rigorosa normativa, mentre particolare attenzione
era rivolta ai luoghi sacri delle religioni cristiana, ebrea, musulmana. Dopo
la nascita dello Stato d'Israele (1948), il centro storico e le aree a NE restarono
agli Arabi. Assai forte, specialmente dopo i trattati del 1950, fu l'espansione
urbana nella parte israeliana della città, con la costruzione di quartieri
residenziali, grandi alberghi, unità di abitazione e della Città
universitaria ebraica (1954-60), che comprende gli istituti, i laboratori, la
biblioteca, lo stadio, l'auditorium, ecc. Il Museo Nazionale di Israele, aperto
nel 1965, comprende il Museo Biblico e Archeologico Samuel Bronfman (storia
della Palestina), il Museo d'Arte Bezalel (pittura moderna, arredi rituali giudaici,
costumi e oggetti della cultura ebraica di ogni Paese dal Medioevo a oggi),
la collezione di scultura Billy Rose (opere di Rodin, Maillol, Bourdelle, Zadkine,
ecc.) e il Sacrario del Libro, dove sono conservati i rotoli del Mar Morto.
Destinato a collezioni di arte moderna è il Nathan Cunnings 20th Century
Art Building, inaugurato nel 1990. Il Museo dell'Olocausto (Yad Vashem) è
il primo museo storico che conservi l'ampia e sconvolgente documentazione sulle
persecuzioni subite dagli Ebrei durante il nazismo; vi è archiviato l'elenco
dei dispersi e deceduti nei campi di concentramento. In ricordo dei bambini
è un edificio-monumento, il Children Memorial, appartenente al complesso
dello Yad Vashem. A partire dall'occupazione israeliana si è operata
una vasta operazione di restauro e di risanamento del centro antico.
Granada (città della Spagna)
Generalità
Città (242.823 ab. nel 1998) della Spagna, situata nell'Andalusia, a
685 m sui primi contrafforti del versante nordoccidentale della Sierra Nevada,
presso la confluenza nel Genil del fiume Darro, che attraversa l'abitato dividendolo
in due parti. Sulla destra del fiume si trova la collina dell'Albaicín
con la città vecchia che conserva tuttora il tipico aspetto arabo, con
vie strette e tortuose, mentre ai piedi del colle si stende la città
nuova. Tradizionale centro agricolo-commerciale, con un fiorente artigianato
(lavorazione del cuoio, del ferro battuto, delle ceramiche), la città
si è sviluppata soprattutto negli ultimi decenni grazie all'installazione
di industrie alimentari (zuccherifici, conservifici, oleifici, distillerie),
del tabacco, meccaniche ed edili e ancor più al potenziamento del turismo.
Università. In italiano, Granata.
Storia
Fondata, pare, dai Turduli, primitiva popolazione iberica, era già nota
nel sec. V col nome di Elubirge e poi con quello di Iliberri o Iriberri (forse
Città Nuova), sotto il quale fu municipio romano. Il posteriore nome
di Granada , interpretato come un'allusione alla forma della città, eretta
su tre colli e vista come una melagrana aperta (“granada”), sembra
invece derivare da Garnata, nome di uno dei quartieri della città. Fu
sede di uno dei primi vescovi cristiani di Spagna (San Cecilio) e del primo
concilio tenuto nella penisola (300). I Visigoti ne fecero un centro militare.
Nel 711 cadde, non senza posteriori ribellioni, in mano ai Mori e col nome di
Medina Elvira fu capoluogo di una delle loro province. Nel sec. XI, alla caduta
del califfato di Cordova, Zawi ben Ziri (della dinastia berbera degli Ziriti)
ne fece la capitale di un regno autonomo. Appartenne quindi agli Almoravidi,
agli Almohadi e dal 1231 alla dinastia dei colti e raffinati Nasridi, sotto
i quali raggiunse il massimo splendore. Le discordie interne e soprattutto l'irresistibile
avanzata della riconquista cristiana posero fine al regno moro, che capitolò
nel 1492 davanti a Isabella di Castiglia e Ferdinando II d'Aragona che predilessero
l'antica città e vollero esservi sepolti. Inoltre il re concluse, nel
1500, un trattato con Luigi XII di Francia che sanciva la spartizione del Regno
di Napoli ai danni dei re aragonesi. Carlo V vi risiedette varie volte, la dotò
di università (1526) e iniziò la costruzione di un palazzo entro
la stessa Alhambra. Nel 1568 la ribellione dei Moriscos, soffocata nel sangue,
privò Granada dei suoi abitanti più attivi, facendone una modesta
cittadina di provincia. Centro dei moti liberali, la città fu teatro,
durante la guerra civile del 1936, di una violenta repressione.
Arte
Granada , che fu uno dei maggiori centri di diffusione della tecnica ceramica
islamica in Europa, distinguendosi per la produzione di vasellame di terracotta
invetriata e di azulejos, conserva numerosi monumenti del periodo arabo, costruiti
tra il sec. XI e il XIV, ma successivamente trasformati. Oltre all'Alhambra,
che è il più importante, si ricordano la Puerta de Elvira (porta
principale della cinta, sec. XII), il Cuarto Real de S. Domingo (torre di cinta
con sala adorna di stucchi e azulejos, sec. XIII), il Generalife (residenza
di campagna dei califfi arabi, sec. XIV), il quartiere dei falconieri (Albaicín)
con i resti della moschea, il quartiere di Alcazaba Cadima. La cattedrale, eretta
in stile rinascimentale da Diego de Siloé nel 1528-43 e completata nel
1700, presenta 5 navate giustapposte a una rotonda a doppio ambulacro; all'interno
fasci di colonne corinzie sorreggono volte mudéjar. Sul fianco destro
si apre la cappella reale, eretta tra il 1505 e il 1507 da E. de Egas in forme
plateresche, che accoglie le tombe di Ferdinando e Isabella eseguite dal fiorentino
D. Fancelli; nella sacrestia è conservato fra l'altro un prezioso gruppo
di dipinti primitivi olandesi (opere di Memling, D. Bouts, R. van der Weyden).
Altri edifici rinascimentali di Granada sono le chiese di S. Jerónimo
e di S. Ana, pure di D. de Siloé, l'ospedale di S. Juan de Dios (iniziato
nel 1552), il palazzo della Curia (1534), il Tribunale Supremo (1587). La sagrestia
della Certosa, di L. de Arévalo e M. Vázquez (1727-64) è
invece un tipico esempio dell'architettura tardobarocca spagnola, caratterizzata
da uno sfrenato decorativismo. Il Museo Arqueológico Provincial conserva
materiale preistorico, iberico, classico, visigotico e musulmano; il Museo de
Bellas Artes, dipinti di Alonso Cano, Juan de Sevilla e di altri artisti spagnoli.
Malta, Cavalièri di-
(propr. Sovrano Militare Ordine Gerosolimitano di Malta e anche Sovrano Ordine
di San Giovanni di Gerusalemme). Nato nel sec. XI a Gerusalemme come ordine
religioso ospedaliero presso un monastero benedettino fondato da mercanti amalfitani,
fu riconosciuto verso il 1113 da papa Pasquale II. Divenuto, quindi, ordine
militare con la costituzione di una classe di cavalieri per la difesa di Gerusalemme
e la guerra contro i Saraceni, come tale fu riconosciuto verso il 1130 da papa
Innocenzo II. Da questo momento le vicende dell'Ordine furono legate alle crociate:
ricaduta Gerusalemme in possesso dei Musulmani (1187), l'ordine si trasferì
(1191) a S. Giovanni d'Acri, a Cipro, e quindi (1310) a Rodi, dove conobbe due
secoli di grande potenza economica e militare. Occupata Rodi dai Turchi (1522),
l'ordine ebbe in feudo dall'imperatore Carlo V l'isola di Malta (1530), donde
nel 1798 fu cacciato a opera delle truppe francesi; dopo varie vicissitudini
la sede fu stabilita nel 1834 a Roma. ? Nonostante dal 1798 sia privo di territorialità,
l'Ordine di Malta è sovrano, cioè investito di alcune prerogative,
come quella di concedere decorazioni, che spetta soltanto agli Stati sovrani,
e ha personalità di diritto internazionale. Esso si articola in tre “lingue”
(comprendenti alcuni “grandi priorati”): d'Italia, di Spagna, d'Alemagna,
e in alcune “associazioni nazionali”; organi centrali sono il sovrano
consiglio e il Gran Maestro, eletto a vita. Stemma dell'ordine è la croce
bianca in campo rosso; decorazione è la croce a otto punte. Nell'ultima
carta costituzionale (approvata con breve pontificio nel 1961) i membri dell'Ordine
sono ripartiti in tre gruppi, secondo che abbiano pronunciato i tre voti (castità,
obbedienza, povertà), abbiano formulato solenne promessa di obbedienza
ai superiori e di osservanza della legge di Dio, dedichino senza voti o promesse
la loro attività al servizio dell'Ordine. Al primo gruppo appartengono
i Cavalieri di Giustizia (per i quali è prescritta la prova di nobiltà)
e i Cappellani Conventuali; al secondo, i Cavalieri di Obbedienza, per i quali
pure è prescritta la prova di nobiltà; al terzo, i Cavalieri e
le Dame di Onore e Devozione (prova di nobiltà), i Cappellani Conventuali
ad honorem e i Cappellani Magistrali; i Cavalieri e le Dame di Grazia e Devozione
(prova di nobiltà della sola famiglia paterna); i Cavalieri e le Dame
di Grazia Magistrale, ai quali si richiede solo l'appartenenza a famiglie di
elevata condizione sociale, ammessi all'Ordine per speciali titoli di benemerenza.
Per benemerenze verso l'Ordine sono ammessi anche i Donati, i quali, a differenza
dei Cavalieri e delle Dame di ogni categoria, non possono essere insigniti della
Gran Croce.
órdine
Lessico
sm. [sec. XIV; dal latino ordo -inis, fila, disposizione].
1) Collocamento, sistemazione di ogni cosa nel posto adatto; assetto, disposizione
di più cose o delle varie parti di una cosa secondo un criterio prestabilito
in base a esigenze pratiche o ideali; il criterio stesso seguito: mettere in
ordine i libri, i cassetti; abbiamo conservato l'ordine preesistente; lavorare
con ordine. Riferendosi non alla distribuzione nello spazio, ma allo stato in
cui oggetti o ambienti si trovano, alla cura con cui sono tenuti: tenere in
ordine la casa. Nelle loc., mettersi in ordine, lavarsi, acconciarsi e vestirsi
con proprietà; l'ordine del creato, la sua armonica costituzione e disposizione;
l'ordine naturale, il complesso delle leggi della natura; amore per l'ordine,
tendenza a essere precisi, accurati.
2) Modo con cui si susseguono i vari elementi di una serie materiale o ideale:
ordine crescente, decrescente, di grandezza; ordine cronologico; ordine gerarchico;
elencare in ordine alfabetico. In particolare, ordine diretto, ordine inverso,
costruzione diretta o inversa del periodo; numero d'ordine, quello indicante
il posto occupato da ciascun elemento in una serie; narrare per ordine, procedere
con ordine, osservando la successione logica o temporale dei fatti e degli argomenti.
Anche modo di schierare, di disporre i soldati, formazione: ordine di marcia,
di battaglia; avanzare in ordine sparso; ritirarsi in buon ordine, senza sbandamenti;
fig., desistere da un'impresa che si riconosce molto difficile o impossibile.
3) Serie di più cose eguali disposte in linea orizzontale; fila: ordine
di palchi; tre ordini di banchi. Per estensione, serie di fatti che si distinguono
da altri per certe determinate caratteristiche: considerazioni di ordine pratico
e di ordine morale; talora sinonimo di natura, carattere: questioni d'ordine
metafisico; anche il posto che una singola cosa o persona occupa in una graduatoria
con particolare riferimento al pregio, al valore e simili: spettacolo di prim'ordine,
eccellente; merce di terz'ordine, scadente; albergo d'infimo ordine, pessimo.
4) Ogni parte in cui viene sistematicamente distinta secondo determinati criteri
organici o descrittivi una pluralità di esseri o di cose: scuole dell'ordine
superiore, inferiore; ordini architettonici, sistema di elementi morfologici,
connessi secondo precisi rapporti per strutturare un'unità architettonica.
In particolare: A) entità sistematica che nella scala gerarchica della
classificazione zoologica e botanica è situata fra la classe che la comprende
e la famiglia che ne fa parte. B) In demografia, ordine di generazione, ordine
secondo il quale i nati da una stessa donna vengono generati (primogeniti, secondogeniti,
ecc.). Generalmente, data la difficoltà di stabilire l'ordine di generazione
per parti gemellari, o di computarvi gli eventuali aborti, si preferisce analizzare
l'ordine di nascita che si basa usualmente soltanto sulla registrazione dei
nati vivi.
5) Complesso di persone che per condizione sociale, professione, modo di vivere
o per altre caratteristiche costituiscono una classe a sé; categoria,
ceto, associazione: l'ordine dei nobili; ordini professionali, cavallereschi,
religiosi. In particolare, ordine giudiziario, il complesso degli organi che
esercitano il potere giudiziario. La Costituzione italiana (art. 104) riconosce
all'ordine giudiziario autonomia e indipendenza da ogni altro potere. Per la
propria autonomia l'ordine giudiziario ha il diritto di mettere in essere gli
atti riguardanti lo stato giuridico dei magistrati e i provvedimenti disciplinari
nei loro confronti.
6) Funzionamento disciplinato, regolato da norme opportune in vista di un dato
fine: l'ordine sociale; l'ordine del traffico; nella scuolal'ordine è
necessario. Nelle loc.: mantenere l'ordine, la disciplina; richiamare all'ordine,
ammonire, richiamare a un comportamento più disciplinato; ordine pubblico;
ordine costituito, il modo in cui una società è organizzata; i
tutori dell'ordine, gli agenti di polizia, i carabinieri.
7) Disposizione precisa e perentoria, comando dato a voce o per iscritto: dare,
impartire un ordine; gli ordini vanno eseguiti. Nelle loc.: essere agli ordini
di, ricevere ordini da qualcuno, essere alle sue dipendenze; ai vostri ordini,
formula di cortesia con cui ci si dichiara a completa disposizione di qualcuno.
Con significati particolari, mandato: ordine di comparizione; prescrizione:
seguire gli ordini del medico; direttiva: non ha lasciato nessun ordine; impiegato
d'ordine; parola d'ordine, (vedi anche parola ); in ordine a, in merito, relativamente
a. Per estensione, commissione di merci o servizi, ordinazione: evadere un ordine.
8) Ordine del giorno, elenco degli argomenti che devono essere discussi in seno
a un organo collegiale. Per esempio, in base al Regolamento della Camera dei
Deputati, “l'assemblea o la commissione non può discutere né
deliberare su materie che non siano all'ordine del giorno”. Competente
alla formazione dell'ordine del giorno, in ogni organo collegiale amministrativo,
è il presidente. Per estensione, citare all'ordine del giorno, segnalare
all'ammirazione pubblica una persona meritevole; essere all'ordine del giorno,
essere di attualità, succedere abitualmente: è un problema all'ordine
del giorno.
9) Sacramento che conferisce il sacerdozio gerarchico con la potestà
di agire nel nome di Cristo e di continuare la sua presenza.
10) In matematica: A) sinonimo di ordinamento, per esempio, di mutare l'ordine
dei fattori in un prodotto. B) Numero caratteristico di un ente matematico,
in particolare geometrico; in questa accezione, l'ordine di un corpo finito,
l'ordine di un gruppo finito, è il numero degli elementi di quel corpo,
di quel gruppo; l'ordine di un'equazione differenziale è quello della
derivata di ordine massimo che compare in quell'equazione; per l'ordine di un
infinito, di un infinitesimo, vedi anche infinito, infinitesimo; per l'ordine
di un determinante, vedi matrice. In geometria, per l'ordine di una curva, di
una superficie, vedi anche curva, superficie; per l'ordine di contatto di due
curve, vedi contatto. In aritmetica si parla di unità del 1º ordine,
del 2º ordine, ecc., per indicare, in un numero, le unità, le decine,
ecc.; in relazione a questa accezione, nel linguaggio scientifico, per ordine
di grandezza si intende il valore approssimato di una data grandezza; per esempio,
la massa di 212 kg è di 2 ordine di grandezza minore della massa di 8
kg.
Diritto: ordini professionali
Sono definiti ordini o collegi professionali le persone giuridiche di diritto
pubblico aventi carattere associativo, ossia corporazioni professionali di persone
che esercitano una stessa attività lavorativa, generalmente a carattere
intellettuale, particolarmente importante dal punto di vista dell'interesse
pubblico (per esempio, le professioni dei medici, degli avvocati, dei notai,
degli ingegneri e architetti, dei giornalisti e pubblicisti, ecc.). Chi esercita
queste professioni deve essere iscritto in appositi albi professionali, tenuti
dal rispettivo ordine o collegio, e poiché gli ordini e collegi sono
dotati anche di potere disciplinare riguardo alla condotta professionale, e
talora anche privata, dei rispettivi iscritti, l'eventuale radiazione dagli
albi stessi o la sospensione comportano l'impossibilità definitiva o
temporanea di continuare a esercitare la professione stessa. Gli ordini o collegi
professionali sono organizzati con leggi, onde la loro struttura interna garantisca
l'autonomia e democraticità degli organi direttivi che devono rappresentare
gli iscritti. Fra le funzioni principali vi è anche quella di stabilire
le tariffe professionali.
Diritto: ordine pubblico
È il complesso dei principi politici e delle norme che regolano l'organizzazione
e l'assetto di uno Stato. È questo l'aspetto normativo dell'ordine pubblico,
mentre quello amministrativo si precisa nei compiti di polizia e di sicurezza
interna esercitati dallo Stato. Il Codice Penale (Libro II, titolo V) considera
reati contro l'ordine pubblico: l'istigazione a delinquere avvenuta in pubblico
e commina la multa o la reclusione fino a un anno per l'istigazione a contravvenzioni,
da uno a cinque anni per istigazione al delitto; l'istigazione a disobbedire
alla legge e all'odio fra le classi è punita con la reclusione da 6 mesi
a 5 anni; i promotori e capi dell'associazione per delinquere, composta da 3
o più persone, sono puniti con la reclusione da 3 a 7 anni, gli associati
da 1 a 5 anni, quanti offrono loro assistenza fino a 2 anni di reclusione. Con
la legge 13 settembre 1982, n. 646, è stata introdotta all'art. 416 bis
del Codice Penale la fattispecie dell'associazione di tipo mafioso che si caratterizza
per la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di
assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per
acquisire la gestione o il controllo di attività economiche, di concessioni,
di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi
ingiusti. I promotori e capi dell'associazione sono puniti con la reclusione
da 3 a 9 anni; gli associati da 3 a 6 anni. Nella legge “antimafia”
(legge 31 maggio 1965, n. 575), più volte modificata e integrata (dalle
leggi 13 settembre 1982, n. 646; 3 agosto 1988, n. 327; 4 agosto 1989, n. 282;
19 marzo 1990, n. 55; 7 agosto 1992, n. 356), sono previste importanti misure
di prevenzione del fenomeno mafioso (sorveglianza speciale, divieto di soggiorno,
obbligo di soggiorno, confisca dei beni sequestrati dei quali non sia dimostrata
la legittima provenienza) applicabili agli indiziati di appartenere ad associazioni
mafiose, camorristiche o affini. Sempre sotto il titolo dell'ordine pubblico
è stata emanata la legge “Reale” (legge 22 maggio 1975, n.
152) con il dichiarato scopo di fornire adeguati strumenti alle forze di polizia
per combattere il terrorismo. Buona parte della sua articolata struttura è
stata abrogata o modificata. In particolare, la legge 28 luglio 1984, n. 398,
ha abolito l'art. 1 che recava precisi divieti alla facoltà dell'autorità
giudiziaria di concedere la libertà provvisoria. Restano in vigore le
disposizioni relative: a) all'art. 4 della legge che sancisce la facoltà
“in casi eccezionali di necessità e di urgenza, che non consentono
un tempestivo provvedimento dell'autorità giudiziaria”, per gli
ufficiali e agenti della polizia giudiziaria e della forza pubblica che svolgano
operazioni di polizia, di procedere all'immediata perquisizione sul posto “al
solo fine di accertare l'eventuale possesso di armi, esplosivi e strumenti di
effrazione”; b) all'ampliamento dei casi di legittimo uso delle armi da
parte della forza pubblica non solo in presenza di una violenza attuale ma anche
per impedire la consumazione di alcuni delitti contro l'incolumità pubblica,
dell'omicidio volontario, della rapina a mano armata e del sequestro di persona;
c) all'art. 16 relativo alla sospensione dei termini di decorrenza della prescrizione;
d) all'estensione delle misure di prevenzione della legge antimafia anche ai
soggetti sospetti di attentare alle istituzioni democratiche. Oltre a queste
disposizioni si deve ricordare la legge 18 febbraio 1987, n. 34, che ha introdotto
la riduzione della pena a favore di chi si dissocia dal terrorismo inaugurando
il debutto dell'uscita dalla legislazione di urgenza emanata durante gli “anni
di piombo”. Agli effetti della legge si considera condotta di dissociazione
dal terrorismo il comportamento di chi, imputato o condannato per reati aventi
finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale,
ha definitivamente abbandonato l'organizzazione o il movimento terroristico
o eversivo cui ha appartenuto ammettendo le attività svolte, comportandosi
in modo incompatibile con il vincolo associativo e ripudiando la violenza come
metodo della lotta politica. Della legge 6 febbraio 1980, n. 15, restano in
vigore l'art. 1, che dispone per i reati commessi per finalità di terrorismo
o di eversione dell'ordine democratico l'aumento della pena sino alla metà
di essa, salvo nei casi in cui la circostanza della finalità sia elemento
costitutivo del reato; e l'art. 5, che prevede fuori dei casi di desistenza
volontaria una causa di non punibilità del colpevole di un delitto, commesso
per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico, che
volontariamente impedisce l'evento e fornisce elementi di prova determinanti
per l'esatta ricostruzione del fatto e per l'individuazione degli eventuali
concorrenti. La legge 25 gennaio 1982, n. 17, ha inoltre disposto la normativa
di attuazione dell'art. 18 della Costituzione in materia di associazioni segrete.
Sono considerate tali e quindi vietate dall'art. 18 della Costituzione, quelle
che, anche all'interno delle associazioni palesi, occultando la loro esistenza
ovvero tenendo segrete congiuntamente finalità e attività sociali
ovvero rendendo sconosciuti i soci, svolgono attività diretta a interferire
sull'esercizio delle funzioni di organi costituzionali, di amministrazioni pubbliche,
di enti pubblici nonché di servizi pubblici essenziali di interesse nazionale.
Chi promuove o dirige un'associazione segreta o svolge attività di proselitismo
a favore della stessa è punito con la reclusione da 1 a 5 anni. Chi partecipa
a un'associazione segreta è punito con la reclusione fino a 2 anni. Quando
sia accertata con sentenza definitiva la costituzione di un'associazione segreta,
il presidente del Consiglio dei Ministri, previa deliberazione del Consiglio
stesso, ne ordina lo scioglimento con decreto e dispone la confisca dei beni.
Con il decreto legge del 3 maggio 1991, n. 143, convertito nella legge 5 luglio
1991, n. 197, sono state adottate rilevanti disposizioni per limitare e per
prevenire l'utilizzazione del sistema finanziario a scopo di riciclaggio del
denaro di provenienza criminosa. È vietato pertanto il trasferimento
di denaro contante o di titoli al portatore quando il valore da trasferire è
complessivamente superiore a venti milioni di lire. Tale operazione può
essere eseguita tramite gli intermediari abilitati (uffici della pubblica amministrazione,
gli enti creditizi, le società di intermediazione mobiliare, gli agenti
di cambio e altri stabiliti dalla legge). Per quanto riguarda l'impianto organizzativo
delle strutture statali addette alla tutela dell'ordinamento democratico, la
legge 12 ottobre 1982, n. 726 (modificata dalla legge 15 novembre 1988, n. 486),
ha istituito la figura dell'Alto Commissario Antimafia per il coordinamento
della lotta contro la delinquenza mafiosa. Questi ha poteri delegati dal ministro
dell'Interno in materia di coordinamento tra gli organi amministrativi di polizia;
spetta a lui ogni altro potere attribuito all'autorità di pubblica sicurezza.
Qualora insorga la necessità di verificare se ricorrano pericoli di infiltrazione
da parte della delinquenza di tipo mafioso, all'Alto Commissario Antimafia sono
attribuiti poteri di accesso e di accertamento presso le pubbliche amministrazioni,
enti pubblici, banche e istituti affini che raccolgono il risparmio. Le imprese
aggiudicatarie o partecipanti a gare pubbliche di appalto o trattativa privata
sono tenute a fornire su richiesta dell'Alto Commissario Antimafia notizie di
carattere organizzativo, finanziario e tecnico sulla propria attività.
Con lo scopo di tamponare la recrudescenza della criminalità e di dare
a questa un'adeguata risposta sotto il profilo organizzativo sono state emanate
leggi finalizzate al coordinamento delle forze che lottano contro la criminalità
organizzata per la tutela dell'ordine pubblico. Fra queste la legge 30 dicembre
1991, n. 410, che ha istituito presso il Ministero dell'Interno il Consiglio
generale per la lotta alla criminalità organizzata presieduto dal ministro
e composto: dal capo della Polizia, dal comandante generale dell'Arma dei carabinieri,
dal comandante generale della Guardia di finanza, dall'Alto Commissario Antimafia,
dal direttore del S.I.S.D.E. e dal direttore del S.I.S.M.I. L'art. 3 della legge
ha istituito la Direzione Investigativa Antimafia (D.I.A.) che a decorrere dal
1º gennaio 1993 acquisirà anche l'esercizio delle funzioni ora proprie
dell'Alto Commissario Antimafia. La legge 20 gennaio 1992, n. 8, ha istituito,
nell'ambito della Procura generale presso la Corte di Cassazione, la Direzione
Nazionale Antimafia (D.N.A.).
Diritto internazionale: ordine pubblico
Il richiamo del diritto straniero operato dalle norme di conflitto da applicarsi
in presenza di un elemento di estraneità della causa (per l'ordinamento
italiano gli articoli dal 16 al 31 delle disposizioni sulla legge, in generale
“preleggi”) è talora ostacolato dal cosiddetto ordine pubblico.
Invero, in base all'art. 31 delle preleggi, in nessun caso le leggi e gli altri
atti di uno Stato estero possono avere effetto nel territorio dello Stato, quando
siano contrari all'ordine pubblico. Tale principio normativo ha come effetto
di escludere l'applicazione del diritto straniero richiamato. In questo caso
il giudice italiano, verificata la contrarietà all'ordine pubblico interno
della norma extranazionale, farà applicazione del diritto straniero richiamato
modificandolo conformemente ai principi d'ordine pubblico del diritto nazionale
o applicherà la legge nazionale del foro.
Diritto canonico
Gli ordini religiosi sono associazioni di cristiani che, proponendosi di seguire
nella vita i consigli evangelici, si dedicano al Signore con i voti di castità,
povertà e obbedienza. Si distinguono in due categorie: gli ordini, nei
quali è prescritta la pronuncia dei voti solenni; le congregazioni, nelle
quali i voti sono semplici (perpetui o temporanei). I religiosi che fanno parte
di un ordine sono detti regolari; quelli di una congregazione sono religiosi
a voti semplici. Oggi gli ordini hanno assunto forme più agili in rispondenza
alle esigenze dell'apostolato moderno.
Economia
Nel linguaggio economico e commerciale, ordine di Borsa, quello mediante il
quale si conferisce l'incarico di concludere operazioni nelle contrattazioni
di Borsa; ordine limitato (d'acquisto o di vendita), dato a un agente di cambio
con l'indicazione del prezzo minimo o massimo d'acquisto da non superare; ordine
al meglio, da eseguire al prezzo più conveniente; ordine a discrezione,
la cui esecuzione è lasciata al giudizio degli intermediari di Borsa;
ordine di consegna (delivery order), emesso dal vettore (o dal suo agente) su
richiesta del possessore della polizza di carico, indirizzato al capitano della
nave perché consegni alla persona designata una o più parti del
carico viaggiante; ordine di rilascio, documento che il vettore rilascia al
ricevitore per permettergli di ritirare la merce; ordine in derrata; ordine
di banca, trasmesso a una banca per l'acquisto o la vendita di divise estere
su una o più piazze; ordine di accreditamento, sistema di pagamento usato
per alcune spese dello Stato, attuato mediante un'apertura di credito presso
un ufficio provinciale del Tesoro a favore di un funzionario che è autorizzato
a disporre della somma. Lo stesso termine indica anche, nel linguaggio bancario,
la disposizione con la quale si autorizza un corrispondente ad accreditare a
un terzo una somma; ordine di riscossione, documento col quale il competente
ufficio di un'azienda autorizza il tesoriere (in caso di azienda pubblica) o
il cassiere (nel caso di azienda privata) a riscuotere una somma determinata
da un soggetto in esso indicato; ordine di pagamento, documento col quale il
tesoriere di un ente pubblico o il cassiere di un'azienda privata vengono autorizzati
a versare una somma a una persona determinata; ordine di portafoglio, assegno
emesso dal direttore generale del Tesoro su un conto corrente aperto presso
la Tesoreria centrale per il pagamento delle rimesse sull'estero.
Filosofia
In senso generale una definizione dell'ordine è quella stoica, codificata
da Cicerone come “la disposizione degli oggetti nei loro luoghi adatti
e appropriati”; in senso stretto l'ordine può riferirsi a una relazione
di causa ed effetto o delle parti con il tutto; oppure all'universo o a un singolo
ente. Appunto il problema dell'ordine universale o cosmico è quello che
per primo ha stimolato la riflessione filosofica: Eraclito parla del Logos come
legge del mondo e del suo divenire, mentre Anassagora introduce per spiegare
l'ordine cosmico il concetto di Nous o intelletto metafisico. Con Platone, il
problema dell'ordine interessa i rapporti fra molteplicità e unità,
le quali possono sussistere senza contraddirsi se il loro rapporto è
fondato sulla norma, e cioè su di un ordine per cui il molteplice partecipa
dell'uno. Aristotele distingue diversi tipi di ordine, secondo i diversi tipi
di principi (intellettuali, causali, spaziali, ecc.), San Tommaso accetta i
dati aristotelici, accentuando l'ordine del mondo creato. Quest'ordine che Dio
impone alle cose è quello stesso che i filosofi del Rinascimento riconosceranno
come interno alle cose, sicché Dio verrà a identificarsi con esso:
si giunge così alle forme rigorose di panteismo di G. Bruno e di Spinoza.
Il pensiero contemporaneo tende invece a una riduzione relativistica o soggettivistica
del concetto: da parte neopositivistica si afferma che l'ordine è sempre
e soltanto relativo alla composizione di un campo d'indagine; per gli esistenzialisti
invece l'ordine risulta da un progetto del soggetto, essenzialmente condannato
allo scacco.
Storia: istituzioni medievali
Nella società medievale, gli ordines erano i vari gruppi in cui era suddivisa
la popolazione secondo le funzioni e i diritti e doveri spettanti a ognuno di
essi. Ogni gruppo aveva un proprio ordinamento giuridico corrispondente alle
mansioni che esercitava. Gli ordini erano tre: del clero, con funzioni religiose,
di assistenza e di formazione intellettuale; della nobiltà, a cui competevano
funzioni militari e politiche; dei mercanti e dei contadini, che dovevano attendere
alle funzioni economiche. Quest'ultimo ordine però, in forza della differenza
delle sue mansioni, diede origine al suo interno alla formazione di classi con
la distinzione fra borghesi, contadini liberi e servi della gleba. Di conseguenza
si perdette anche l'unità giuridica dell'ordine e si formò uno
status giuridico diverso per ogni classe: la borghesia si organizzò in
corpi particolari con prerogative e privilegi propri, mentre fra i contadini
e i servi della gleba i doveri finirono con il prevalere sui diritti. Era possibile
il passaggio da un ordine all'altro e in genere i primi due ordini attingevano
elementi dal terzo ordine.
Sociologia
La teoria dell'ordine sociale – elaborata in analogia con le teorie dell'equilibrio
biologico tramite evoluzione, sviluppate e divulgate dalla scuola positivistica
dell'Ottocento – compare in diverse versioni nei fondatori della sociologia
(A. Comte, H. Spencer, lo stesso E. Durkheim). Autori che – riflettendo
sugli effetti della crisi dell'Ancien Régime e sulle conseguenze dell'industrializzazione,
dell'urbanizzazione e dell'incipiente formarsi delle società di massa
– si pongono tutti interrogativi sui destini dell'umanità priva
di rassicuranti riferimenti ai poteri monocratici di diritto divino e all'apparente
immobilità delle comunità tradizionali. Ripristinare l'ordine,
nella sfera delle norme condivise e nel sistema politico, appare così
in definitiva la preoccupazione principale di tutti i teorici postrivoluzionari,
convinti che l'ordine rappresenti un valore in sé e una sorta di bene
comune da preservare a qualunque costo. Viceversa, il coevo pensiero rivoluzionario
(di cui è principale esponente K. Marx) afferma l'ordine come esito di
un processo di scomposizione dei vecchi equilibri e di definizione di una nuova
tavola di valori e considera la rivendicazione dell'ordine esistente come una
difesa ideologica dei privilegi sociali della classe dominante. Fra queste due
visioni politico-culturali trova spazio l'analisi sociologica dell'ordine come
sistema, presente per esempio nell'opera di V. Pareto agli inizi del sec. XX
e successivamente riproposta dalla scuola funzionalistica statunitense e in
particolare da T. Parsons. Le nozioni di ordine e sistema – intrecciandosi
a quella controversa di complessità – è anche alla base
della ricerca di studiosi del mutamento sociale contemporaneo (E. Morin, N.
Luhmann), influenzati dagli sviluppi dell'indagine cibernetica e biologica.
Palestina
Generalità
Regione storica dell'Asia occidentale. Affacciata al Mare Mediterraneo a W e
al golfo di !Aqaba a S, è limitata dai contrafforti del Libano a N, dal
Deserto Siriaco a E e dal Sinai a SW, comprende le regioni della Galilea, della
Giudea e della Samaria che, prima dell'occupazione israeliana del 1967, appartenevano
sia a Israele sia alla Giordania (per l'evoluzione della situazione politica,
v. oltre). Il territorio, costituito dalla pianura costiera, da una regione
mediana di alte terre e dalla fossa del Giordano a E, è caratterizzato
da clima caldo e asciutto. L'agricoltura, la pastorizia e l'industria costituiscono
le principali risorse economiche della popolazione. In greco, Palaistíne;
in latino, Palaestina; in ebraico, Peleshet.
Preistoria
Il territorio tra il Mare Mediterraneo e la Valle del Giordano fu sicuramente
abitato fin dai più antichi tempi: lo testimoniano, tra l'altro, i numerosi
reperti litici e i resti scheletrici umani rinvenuti sia nelle grotte del monte
Carmelo e in quelle di Umm Qatafa, sia in stazioni preistoriche all'aperto come
quelle di Ubeidyia a sud del lago di Tiberiade. Dopo il periodo di transizione,
in cui si sviluppò la cultura mesolitica natufiana, anche la fascia costiera
palestinese venne a trovarsi nella sfera d'influenza delle grandi culture neolitiche
del Vicino Oriente.
Storia
Anteriormente alla conquista ebraica, la regione era nota come Terra di Canaan.
Fu poi chiamata Israele e soltanto in età ellenistica assunse il nome
di Sirya Palaestina da cui deriva l'attuale denominazione. Durante il III e
il II millennio a. C. la Palestina fu controllata più o meno direttamente
dai faraoni egiziani. Verso la fine del II millennio fu conquistata dagli Ebrei:
il culmine della potenza ebraica fu raggiunto sotto Salomone (ca. 961-922 a.
C.). A partire dal sec. VIII la Palestina entrò nell'orbita mesopotamica:
gli Assiri, i Babilonesi e i Persiani la inclusero nei loro imperi. Soggiogata
da Alessandro nel 320, fu poi oggetto di contese tra i diadochi. Quasi indipendente
sotto i Maccabei e i loro successori (sec. II), nel 63 a. C. fu inclusa nella
sfera d'influenza romana. Le rivolte ebraiche del 66-70 d. C. e del 132-135
furono represse dai Romani e diedero luogo alla diaspora definitiva del popolo
ebraico. Nel sec. IV la Palestina divenne una provincia dell'Impero bizantino,
che la conservò, se si esclude una parentesi sassanide nel 611-628, fino
al 634, anno della conquista araba. Nel sec. X la crisi dell'Impero abbasside
consegnò la Palestina nelle mani dei sultani egiziani. La I crociata
(1096-99) condusse alla creazione di un regno latino di Gerusalemme che sopravvisse
per quasi un secolo. Nel sec. XIII la regione fu saccheggiata da Mongoli e Tartari.
Dopo la caduta di Acri (1291), ultimo ridotto franco, la Palestina rientrò
nell'orbita egiziana. Nel 1516 fu conquistata dagli Ottomani, il cui dominio,
interrotto da una parentesi egiziana (1831-40), si prolungò fino al 1918.
Dopo essere stata occupata dalle truppe inglesi, fu affidata dalla Società
delle Nazioni in mandato alla Gran Bretagna (1922), la quale, anche per effetto
della crescente migrazione ebraica verso la Palestina e grazie alla trasformazione
dell'Organizzazione sionistica in Agenzia Ebraica (1922), si assunse l'onere
di “stabilire nel Paese uno stato di cose politico, amministrativo ed
economico che potesse assicurare l'istituzione del Focolare Nazionale ebraico”,
senza tuttavia “pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità
non ebraiche”. Nel 1922 il memorandum Churchill escluse la possibilità
che ciò comportasse la creazione di una Palestina interamente ebraica.
Ma tali assicurazioni non convinsero i nazionalisti arabi che rifiutarono, diversamente
dagli Ebrei, di collaborare con la potenza mandataria. L'ostilità degli
Arabi nei confronti degli Inglesi e degli Ebrei, che avevano rapidamente incrementato
il loro numero e il loro impatto sulla regione, culminò nella rivolta
del 1936-39. In Gran Bretagna prevalse allora l'idea, consegnata a un libro
bianco, di erigere uno Stato palestinese binazionale in seno al quale gli Arabi
sarebbero rimasti la comunità maggioritaria. Il progetto fu respinto
dagli Arabi e, ancor più fermamente, dagli Ebrei. Nell'aprile 1947 Londra,
che non gradiva le pressioni di Washington a favore dei sionisti, deferì
la questione palestinese all'ONU. A New York ci si pronunciò a favore
di un piano che comportava la fondazione di due Stati indipendenti, uno arabo
ed uno ebraico, e l'internazionalizzazione di Gerusalemme e di Betlemme. Il
14 maggio 1948, mentre gli Inglesi lasciavano la Palestina, nacque Israele.
In assenza di una mediazione armata, Arabi ed Ebrei (i primi aiutati dagli eserciti
dei Paesi arabi confinanti) si affrontarono senza esclusione di colpi. La vittoria
arrise agli Ebrei, che si assicurarono alcune tra le aree che avrebbero dovuto
far parte dello Stato arabo. Del resto quest'ultimo rimase sulla carta: la striscia
di Gaza fu occupata dagli Egiziani, mentre la Cisgiordania fu definitivamente
annessa alla Giordania nel 1949. L'esodo di centinaia di migliaia di profughi
aggravò ulteriormente la questione palestinese. Un vero e proprio rilancio
del problema si ebbe nel 1964 con la fondazione dell'OLP. La guerra arabo-israeliana
del 1967 condusse gli Israeliani all'occupazione della Cisgiordania e di Gaza:
una situazione territoriale non modificata dalla guerra del 1973 e anzi inaspritasi
dopo l'annessione nel dicembre del 1981 delle Alture di Golan. I guerriglieri
palestinesi ebbero le loro basi principali nella Giordania fino al 1970-71 e
successivamente in Siria e nel Libano meridionale. Quest'ultimo, divenuto roccaforte
della resistenza palestinese, venne invaso nel giugno del 1982 dalle truppe
israeliane e, dopo due mesi di combattimenti, i guerriglieri palestinesi vennero
fatti evacuare dalla capitale libanese. L'OLP stabilì il suo quartier
generale a Tunisi, ma la lontananza dalla Palestina e le continue ingerenze
di alcuni Paesi arabi che fomentavano le varie formazioni palestinesi ne indebolirono
l'azione. L'offensiva diplomatica di Y. !Arafat, capo dell'OLP, che prendeva
nettamente le distanze dal terrorismo e da ogni azione armata condotta fuori
dei territori occupati, nonché l'implicito riconoscimento all'esistenza
dello Stato di Israele rilanciarono il ruolo dell'organizzazione. L'esplosione
dell'Intifada (1987), infine, ristabilì un rapporto diretto con la popolazione
palestinese e favorì una ripresa dell'iniziativa politica interna e internazionale
che portò alla proclamazione di uno Stato indipendente di Palestina (Algeri,
1988) e aprì una nuova fase, rafforzata anche dalla diversa posizione
dei Paesi arabi in occasione della guerra del Golfo (1991). Ciò consentì
alla diplomazia internazionale di spingere verso una soluzione negoziale del
problema palestinese determinando l'apertura (Madrid, 1991) di trattative dirette
tra Arabi, Israeliani, Palestinesi. Queste, proseguite pur tra molte difficoltà,
sfociavano nel 1993 nello storico, reciproco riconoscimento di Israele e OLP
(considerato l'unico legittimo rappresentante dello Stato palestinese) e nell'accordo,
siglato a Washington il 13 settembre da ‘Arafat e dal premier israeliano
Rabin, per la concessione dell'autonomia a Gaza e Gerico. Le forti opposizioni
manifestatesi, anche con attentati, da parte degli estremisti israeliani, e
dei fondamentalisti palestinesi di Hamas, non interrompevano il processo di
pace: un ulteriore accordo siglato al Cairo tra !Arafat e Rabin nel maggio 1994
stabiliva il ritiro israeliano da Gaza e Gerico e il passaggio di questi territori
sotto il controllo della polizia palestinese. Era questo il primo di una serie
di accordi bilaterali che, benché dagli esiti incerti, avevano lo scopo
di estendere l'autonomia anche ad altri territori sotto controllo israeliano.
Nell’agosto 1995 il ministro degli Esteri israeliano Peres ed ‘Arafat
sottoscrivevano, con la cosiddetta Dichiarazione di Taba, un accordo provvisorio
in vista dell’organizzazione di elezioni di un consiglio palestinese con
funzioni legislative ed esecutive e del passaggio ai Palestinesi dell’autorità
civile esercitata da Israele sui territori occupati. In novembre il premier
israeliano Rabin veniva però assassinato da un estremista israeliano
ed era sostituito provvisoriamente da Peres. In dicembre Israele consegnava
ai Palestinesi la città di Ramallah, dando così completa attuazione
alla prima fase della restituzione dei territori occupati prevista dagli accordi
di agosto. Nel gennaio 1996 i Palestinesi di Gerusalemme Est, Gaza e Cisgiordania
eleggevano il Consiglio dell’Autonomia; la maggioranza dei seggi andava
ai candidati vicini alle posizioni di ‘Arafat che veniva contestualmente
eletto alla presidenza dell’assemblea. Ma le elezioni israeliane del maggio
1996, vinte dal Likud, sancivano un arresto delle trattative. Nonostante questo,
nel gennaio 1997 veniva firmato l’accordo per lo sgombero delle truppe
di Israele dalla città di Hebron e confermato il ritiro dell’esercito
dalla Cisgiordania. Ma per risolvere i problemi di malcontento all’interno
della maggioranza, il premier israeliano Netanyahu dava il via libera a un nuovo
insediamento di coloni nella zona araba di Gerusalemme. La tensione tornava
quindi a salire e alimentava la mobilitazione di massa dei Palestinesi. Inoltre,
la ripetuta chiusura dei territori palestinesi da parte del governo israeliano
determinava un ulteriore deterioramento delle condizioni di vita della popolazione
palestinese. In particolare, le sempre più numerose restrizioni all’afflusso
in Israele di lavoratori palestinesi (sostituiti in gran parte da immigrati
provenienti da altri Paesi) incidevano pesantemente sui redditi delle famiglie
residenti in Cisgiordania e Gaza. Lo stallo in cui si veniva a trovare il processo
di pace, accompagnato da una crescita dell'opposizione islamica, espressa in
particolare da Hamas, sembrava superato a ottobre con la firma da parte di ‘Arafat
e Netanyahu del “Memorandum di Wye”, un nuovo accordo che prevedeva:
per la Cisgiordania, il ritiro delle truppe israeliane dal 13,1 % del territorio
e il passaggio del 14,2 % del territorio, amministrato dai Palestinesi ma sotto
la sorveglianza israeliana, sotto il controllo esclusivo dei Palestinesi; l’impegno,
da parte israeliana, a concedere la libertà a 750 prigionieri palestinesi
e ad attuare una terza fase del ritiro delle truppe dalla Cisgiordania; l’impegno,
da parte palestinese, a convocare il Consiglio Nazionale per l’abrogazione
della clausola dello statuto che chiedeva la distruzione dello Stato di Israele,
a disarmare i gruppi estremisti e ad arrestare 30 terroristi; l’apertura
di due corridoi in Israele per collegare i territori palestinesi in Cisgiordania
a quelli di Gaza; l’apertura di un aeroporto palestinese a Gaza. Nel febbraio
2000, nel corso di una visita di ‘Arafat in Vaticano, veniva siglata una
“Dichiarazione di principi” destinata a definire i rapporti diplomatici
fra Palestina e Santa Sede. Nel luglio 2000, i negoziati indetti a Camp David
dal presidente degli Stati Uniti Clinton, al fine di elaborare un piano di pace
tra Israeliani e Palestinesi, avevano esito negativo per le divergenze emerse
tra il premier israeliano Barak e ‘Arafat sulla questione dello statuto
da attribuire a Gerusalemme Est. Nel settembre dello stesso anno, la provocatoria
visita del leader della destra israeliana, A. Sharon, alla spianata delle Moschee
di Gerusalemme innescava una nuova Intifada nei territori palestinesi e una
violenta ripresa del terrorismo antisraeliano. Lo stesso Sharon, divenuto primo
ministro d'Israele nel febbraio 2001 rendeva, con la sua intransigenza, ancor
più difficile la ripresa dei negoziati di pace, consentendo così
alle ali più estremiste del movimento palestinese di porre in crisi la
leadership moderata di ‘Arafat, già in difficoltà nel controllare
gli attivisti islamici. La situazione peggiorava ulteriormente nei mesi successivi
(gli Israeliani facevano in modo che, per lungo tempo, ‘Arafat fosse di
fatto impossibilitato a lasciare la città di Ramallah) e precipitava
nel marzo 2002, con l'intervento delle truppe israeliane in Cisgiordania, che
si concludeva nel maggio seguente, senza però che si intravvedessero
sbocchi per la risoluzione della crisi. Pur in questa difficile situazione,
sempre nel mese di maggio, veniva promulgata la Costituzione palestinese, che
era stata approvata dal Consiglio legislativo nel 1997.
Letteratura
Si può parlare di una narrativa palestinese già a partire dal
1920, quando Khalil Baydas pubblicò il romanzo al-Warith (L'erede) sull'attaccamento
del contadino arabo alla sua terra. Nel 1946 Ishàq Musà al-Husaini
scrisse un romanzo allegorico sull'immigrazione ebraica in Palestina, Mudhakkirat
dagiagia (Memorie di una gallina). Per la poesia emerge il nome di Ibrahim Tuqan
(m. 1941), fratello della poetessa Fadwà Tuqan (n. 1917). Dopo il 1948
e soprattutto dopo il 1967 la produzione letteraria palestinese è sempre
più legata alle vicende storico-politiche della regione. Da una parte
ci sono scrittori e poeti palestinesi rimasti in patria e diventati cittadini
d'Israele; dall'altra quelli della “diaspora”, disseminati per la
maggior parte in altri Paesi arabi. Non sorprende una certa ripetitività
delle tematiche, un esasperato desiderio di far conoscere attraverso la letteratura
la storia dei Palestinesi. All'inizio degli anni Sessanta si impongono poeti
come Mahmud Darwish (n. 1941), Samih al-Qasim (n. 1939), Tawfiq Zayyad (n. 1929),
le cui liriche vengono tradotte in molte lingue. Capolavoro della narrativa
palestinese è considerato Rigal fi sams (Uomini sotto il sole, 1963;
pubblicato in Italia nel 1991) di Ghassan Kanafani (1936-1972), ma è
altrettanto noto anche fuori del mondo arabo il romanzo satirico al-Mutasha'il
(Il Pessottimista) di Emil Habibi (1922-1996), scrittore arabo d'Israele, molto
contestato in alcuni ambienti arabi. Tra i letterati palestinesi va ricordato
Giabra Ibrahim Giabra (1919-1994), trasferitosi dal 1948 in Iraq, autore di
romanzi come as-Safinah (La nave) e al-Bahth !an Walid Mas!ud (La ricerca di
Walid Mas!ud), tradotti in molte lingue. Ancora più problematica e più
attaccata alla realtà politica della propria terra è la produzione
letteraria degli scrittori dei territori occupati, che trova una delle sue più
significative rappresentanti in Sahar Khalifa (n. 1941), la cui opera maggiore,
Dikra li ‘l-nisyan (Una memoria per l’oblio) del 1987, è
stata tradotta in Italia nel 1997; la scrittrice, in alcuni suoi romanzi, descrive
l’atrocità degli attentati e affronta il tema della lotta nazionale
rispetto alla condizione femminile (Bab al-Saha, 1971; La porta della piazza,
1994). Vanno ricordate infine la scrittrice Basima Halawa (1949-1979), autrice
di novelle, e Akram Haniyya (n. 1953), che permea i suoi racconti di un’atmosfera
surrealistico-metafisica.
Spagna (Stato)
Generalità
(Reino de España). Stato dell'Europa sudoccidentale , che forma col Portogallo
la Penisola Iberica; affacciato a NW e SW all'Oceano Atlantico, a SE e a E al
Mediterraneo, confina a W con il Portogallo, a NE con la Francia (gli arcipelaghi
delle Baleari e delle Canarie appartengono alla Spagna, di cui sono amministrativamente
tre province, rispettivamente dal sec. XIV e dal XV) . La Spagna è tra
le più antiche e solide unità politiche d'Europa: la sua formazione
risale infatti al sec. XV, dopo l'espulsione degli Arabi dal suolo iberico,
e si colloca storicamente in quel momento che vide l'affermazione della cultura
europea, con lo spostamento dei suoi centri di elaborazione e di potere dal
Mediterraneo, erede delle antiche tradizioni classiche e cristiane, all'Europa
atlantica e settentrionale. La Spagna è stata la grande interprete della
fase con la quale il continente si aprì a intense relazioni col resto
del mondo e vide l'imporsi di un'economia vivacizzata da nuovi traffici commerciali.
A questo ruolo storico così importante la Spagna è stata chiamata
dalla sua particolare posizione tra Mediterraneo e Atlantico, grazie alla quale
essa ha potuto mantenersi sempre intimamente legata all'Europa, di cui fu anzi
arbitra per un certo periodo, e al tempo stesso aprirsi a quelle conquiste d'oltremare
che sono state alla base della sua potenza. Le vicende dei secoli passati hanno
contribuito a conferire unità al Paese, che è anche in larga parte
convalidata dalla morfologia stessa del territorio; tuttavia il fatto di collocarsi
tra Atlantico e Mediterraneo e di avere alcune regioni periferiche ben distinte
è alla base di un certo regionalismo che in particolari fasi storiche
si è manifestato con rivendicazioni autonomistiche particolarmente tenaci
in prossimità dell'area pirenaica (Paesi Baschi, Catalogna), la meno
partecipe delle grandi esperienze peculiari del Paese. Sull'eredità del
suo glorioso passato la Spagna è vissuta a lungo, collocandosi sempre
più tuttavia “alla periferia” dell'Europa, posizione che
essa ha espresso nei quarant'anni di “franchismo”, bloccando l'evoluzione
in senso europeo del Paese, che pure ha registrato rilevanti progressi economici,
avvenuti tuttavia a costo di gravi squilibri sociali e territoriali. Dopo la
caduta del regime, la Spagna ha volto decisamente le spalle al passato stringendo
solidi rapporti con il resto d'Europa, e accettando i necessari allineamenti
socio-economici e politici che ciò comporta.
Lo Stato
Dopo la caduta del franchismo, la vita istituzionale del Paese ha conosciuto
radicali cambiamenti. Posto termine alla lunghissima dittatura, nella quale
l'attività legislativa era nominalmente demandata a un Parlamento unicamerale,
a struttura corporativa e in pratica con poteri molto limitati, la Spagna si
è impegnata in una radicale trasformazione in senso democratico delle
istituzioni dello Stato. Tale opera è culminata nella promulgazione della
Costituzione del dicembre 1978, in base alla quale la Spagna è una monarchia
costituzionale ereditaria. Capo dello Stato è il sovrano, massimo rappresentante
dello Stato nelle relazioni internazionali, nonché capo delle Forze armate.
Il potere esecutivo spetta al capo del governo (che viene eletto dal Congresso
dei deputati su designazione del sovrano) e dai vari ministri che formano il
governo; il potere legislativo è esercitato dal Parlamento (Cortes),
bicamerale e formato dal Congresso dei deputati e dal Senato, entrambi eletti
a suffragio universale e diretto per 4 anni. Il Congresso dei deputati consta
di 350 membri, eletti su base proporzionale; il Senato ne annovera 254, di cui
208 a elezione diretta, mentre i restanti 46 sono scelti dalle assemblee delle
regioni autonome. Inoltre nel settembre 1977 la regione della Catalogna ha ottenuto
l'autonomia interna, seguita dai Paesi Baschi (ottobre 1979), dalla Galizia
(dicembre 1980), dall'Andalusia (ottobre 1981) e successivamente (maggio 1983)
dalle altre 13 regioni. Amministrativamente la Spagna continentale, che si estende
per 493.515 km2, è divisa in 47 province raggruppate in regioni autonome,
con capitale Madrid; se si comprendono anche le due province delle Canarie e
quella delle Baleari (in totale quindi 50 province) si raggiungono i 505.954
km2 e una popolazione di 39.630.000 (stima 2000) abitanti. Lingua ufficiale
è lo spagnolo (castigliano) parlato abitualmente dai 3/4 della popolazione;
lingue nazionali sono il gallego (o galiziano), il catalano e il basco, o euskera.
La religione cattolica (che ai sensi della Costituzione del 1978 ha cessato
di essere religione di Stato) è professata dalla quasi totalità
della popolazione; si hanno inoltre minoranze di protestanti, ebrei e musulmani.
L'indice di sviluppo umano (ISU) è 0,899 e pone il Paese al 21° posto
nella graduatoria mondiale.
Geomorfologia: confini e vicende geologiche
La Spagna occupa l'85% della Penisola Iberica e quindi le sue frontiere, a parte
il lato occidentale corrispondente al confine col Portogallo (1232 km), coincidono
per gran parte col contorno della penisola. Esse sono per 3904 km marittime,
mentre i Pirenei formano un elemento divisorio naturale non facilmente penetrabile.
Nonostante sia bagnata per così lungo tratto dal mare, la Spagna non
è molto aperta verso l'esterno: solo la Pianura Betica (o del Guadalquivir)
unisce direttamente le coste all'interno, e non a caso essa fu la prima terra
di conquista e di penetrazione arabe; ma altrove le coste mancano di facili
legami con l'interno. Il territorio spagnolo rientra per gran parte nell'Europa
dei suoli antichi, paleozoici, e si presenta morfologicamente come una successione
di ampi tavolati e di aree moderatamente elevate; tuttavia nella sezione marginale
nordorientale la Spagna comprende il versante meridionale dei Pirenei, a S include
la Cordigliera Betica: due aree appartenenti geologicamente all'Europa giovane,
cenozoica, formatasi cioè con l'orogenesi alpino-himalayana. I rilievi
antichi corrispondono sostanzialmente al Massiccio Galaico, al Sistema Centrale
(o Cordigliera Centrale) e alla Meseta (propr., tavolato); emersero nell'era
paleozoica, a seguito di quei moti ercinici che hanno sottoposto in molti punti
la crosta terrestre a tutta una serie di sollevamenti e di immersioni. Nell'era
mesozoica il territorio subì invasioni più o meno ampie da parte
del mare; successivamente ebbero origine quell'emersione generale e quei moti
tettonici, connessi con l'orogenesi alpina, che diedero l'assestamento definitivo
al Paese. I contraccolpi di questi fenomeni orogenetici causarono profonde fratture
nella Meseta, la inclinarono verso W e ne sollevarono i bordi: a S aveva così
origine la Sierra Morena, a E il Sistema Iberico, mentre a N il corrugamento
dell'altopiano avveniva gradualmente verso le pendici delle catene costiere
atlantiche, tra cui spicca la Cordigliera Cantabrica. Si aprirono anche le due
grandi depressioni, colmate da sedimenti cenozoici e neozoici, a N quella aragonese,
bagnata dall'Ebro, a S quella andalusa, percorsa dal Guadalquivir, e prendeva
forma lo stretto di Gibilterra, separando così la Spagna dal Marocco.
Nell'era neozoica, movimenti sismici ed eruzioni vulcaniche, unitamente ai fattori
esogeni d'erosione, finirono col dare all'ormai formato territorio l'aspetto
che più o meno ha ancora oggi; la glaciazione interessò in genere
i rilievi più elevati.
Geomorfologia: caratteristiche essenziali
Le linee essenziali della morfologia spagnola, uscita da siffatte vicende geologiche,
sono così caratterizzate dall'esistenza di un altopiano interno e da
una serie di rilievi tutti diretti prevalentemente da E a W che l'attraversano
nella parte centrale e che lo chiudono ai bordi settentrionale, orientale e
meridionale: solo a W è aperto verso il Portogallo. Buona parte del territorio
spagnolo è costituita pertanto dalla Meseta, nella quale impropriamente
si distinguono una Meseta (o Submeseta) settentrionale e una Meseta meridionale,
che corrispondono grosso modo alle regioni storiche della Vecchia e della Nuova
Castiglia, separate dalle sierre (Guadarrama, Gredos, Gata) del Sistema (Cordigliera)
Centrale, pilastro tettonico (Horst) sollevato per effetto dell'orogenesi alpina,
che nella Sierra de Gredos tocca i 2592 metri. Che si tratti in realtà
di un solo elemento originario è dimostrato dall'uniformità strutturale
dello zoccolo paleozoico, che quando affiora si palesa col grigiore dei graniti
e dei gneiss, ma per la massima parte è ricoperto da strati più
recenti, dovuti in alcuni casi a fenomeni di ingressione marina, in altri a
sedimentazioni fluviali; comunque sia, il terreno della Meseta, che raggiunge
un'altitudine media di 600-1000 m e si presenta nella parte meridionale meno
elevato che al nord, è in genere argilloso e arido. L'estremo lembo nordoccidentale
del Paese termina col Massiccio Galaico, lembo dello zoccolo paleozoico variamente
fratturato e in genere di modesta altitudine; benché geologicamente non
possa venir disgiunto dalla massa della Meseta, di cui costituisce una regione
periferica, quanto ad aspetto il verde paesaggio della Galizia non ha nulla
di comune con la polverosa steppa castigliana. La Cordigliera Cantabrica, talora
piuttosto elevata includendo i Picos de Europa (2648 m), massime cime della
regione asturiano-basca, sottolinea il margine settentrionale della Meseta;
malgrado appaia come un prolungamento occidentale dei Pirenei, essa ha una più
complessa storia geologica. Mentre infatti il settore orientale è d'origine
cenozoica, come i Pirenei, quello occidentale è costituito da materiali
paleozoici fortemente piegati, formanti il vero orlo rialzato della Meseta.
La Cordigliera Cantabrica incombe sulla costa atlantica con un versante ripido,
determinandone la morfologia priva di pianure costiere e caratterizzata da penetrazioni
profonde (coste a rías) che assumono qui, per genesi e morfologia, aspetti
esemplari. La Cordigliera Cantabrica è talora aspra ma ha numerosi e
non difficili valichi che spiegano la valorizzazione dei porti atlantici, così
importanti nell'espansione spagnola d'oltreoceano. Il limite orientale dell'altopiano
è segnato dal Sistema Iberico, un complesso allineamento di catene spesso
discontinue, con strati paleozoici ricoperti da sedimenti mesozoici di potenza
crescente col procedere verso E; supera in vari punti i 2000 m, toccando i 2313
m nella Sierra del Moncayo. Infine il margine meridionale dello zoccolo della
Meseta, fortemente fratturato dalla grande faglia del Guadalquivir, è
dato dalla Sierra Morena (1323 m) che, con forti dislivelli scavati dall'erosione,
precipita, a guisa di grande muraglia, sulla sottostante piana andalusa. La
depressione del Guadalquivir separa così la regione della Meseta dal
Sistema Betico – assai complesso quanto a struttura – che tocca
le maggiori altezze nella Sierra Nevada, con nevai presenti per gran parte dell'anno
sulle cime che oltrepassano numerose i 3000 m: è qui anzi la massima
vetta del Paese, il monte Mulhacén (3478 m). Ad altitudini piuttosto
elevate giungono anche i Pirenei (Pico de Aneto, 3404 m), distesi per oltre
400 km dall'Atlantico al Mediterraneo, a guisa di possente barriera, dalla morfologia
spesso glaciale, meno ardita ma più impervia e compatta di quella alpina:
la catena è infatti scarsamente interessata da valli trasversali e i
passi più transitabili sono ai margini, dove i Pirenei si abbassano.
In un complesso tanto imponente di alte terre, ben poco spazio hanno le pianure,
limitate in genere a brevi tratti litoranei. Quanto alla depressione dell'Ebro,
incassata fra i declivi degli opposti sistemi montuosi, il paesaggio, limitato
verso il mare dal Sistema Prelitoraneo Catalano (Catena Costiera Catalana),
appare più collinare che pianeggiante e la pianura vera e propria acquista
ampiezza soltanto presso la confluenza del Segre e in prossimità del
delta dell'Ebro. È nella depressione andalusa, racchiusa fra i bordi
scoscesi della Sierra Morena e del Sistema Betico, che si estende l'unica grande
pianura spagnola, ricoperta da terreni in prevalenza marini e ampiamente aperta
(con i suoi campi di cereali, le piantagioni di leguminose, i bei vigneti, aranceti
e oliveti) verso il golfo di Cádice. Allargata a triangolo verso l'Atlantico,
ha un'altitudine sovente inferiore ai 200 m, formando nella sezione terminale
una perfetta pianura sedimentaria, che il cordone delle dune sabbiose protegge
dall'oceano. Alla compattezza della struttura orografica corrispondono anche
sia la scarsa insularità (uniche isole di rilievo sono le Baleari) sia
la limitata articolazione delle coste, il cui sviluppo totale è di appena
3904 km: ampie regioni interne rimangono lontane dal mare, con il quale comunicano
piuttosto difficilmente. I rilievi marginali rendono tuttavia varia la morfologia
costiera, alternando tratti di costa alta e rocciosa (rías, falesie)
a tratti aperti con lagune (albuferas) e dune sabbiose (arenas gordas).
Idrografia
Nel complesso la Spagna non è povera di corsi d'acqua, ma la rete idrografica
è piuttosto disorganica. Essa si articola in cinque principali fiumi:
quattro di essi, il Tago, il Duero, il Guadalquivir e il Guadiana, seguendo
la naturale inclinazione verso W della Meseta, si rivolgono all'Atlantico, svolgendo
tutti (Guadalquivir escluso) il loro tratto inferiore in territorio portoghese;
l'Ebro invece sviluppa il suo corso tra il Sistema Iberico e i Pirenei, sfociando
nel Mare Mediterraneo. I fiumi atlantici presentano generalmente un profilo
accidentato, costretti come sono a scavarsi letti profondi e a scendere ripidamente
a gradini dagli altopiani interni alle pianure costiere; hanno inoltre una portata
piuttosto ridotta, in conformità alle modeste precipitazioni caratteristiche
di vaste aree della penisola e alla scarsità del manto nevoso e dei ghiacciai,
cui si aggiunge l'intensa evaporazione. Solo due corsi d'acqua hanno una portata
importante: il Duero e il Guadalquivir; in ambedue i casi si tratta di assi
fluviali che ricevono, tramite una parte dei loro affluenti, notevoli apporti
di acque. Il bacino del Duero è il più esteso del Paese (oltre
98.375 km2) e corrisponde infatti quasi esattamente a tutta la Meseta settentrionale;
nato dal Sistema Iberico, riceve buoni apporti dal settore di Trás-os-Montes
(Portogallo), dalla Cordigliera Cantabrica e dal Sistema Centrale. Il Guadalquivir,
il cui bacino corrisponde approssimativamente alla depressione omonima, dispone
dell'apporto degli affluenti della Sierra Morena e del Sistema Betico, e, grazie
al suo regime regolare, è assai importante agli effetti dell'irrigazione
e della navigabilità. Portata minore e regime piuttosto irregolare presenta
il Tago (benché con i suoi 1007 km di corso sia il più lungo dei
fiumi iberici), alimentato dagli affluenti soprattutto del Sistema Centrale.
Il meno rilevante dei cinque fiumi iberici è il Guadiana, che ha scarsi
apporti da parte degli affluenti che scendono da catene aride e poco elevate
e che, al pari del Tago, attraversa ampie aree siccitose della Meseta meridionale.
Nel versante mediterraneo il fiume più importante è l'Ebro, il
massimo interamente spagnolo, che, nato dalla Cordigliera Cantabrica, raccoglie
le acque del versante pirenaico meridionale e di quello settentrionale del Sistema
Iberico; esso percorre l'Aragona, irrigando e attraversando un territorio steppico
che contribuisce largamente a limitarne la portata, e dopo essersi snodato in
una fitta serie di meandri si apre faticosamente il passo attraverso il Sistema
Prelitoraneo Catalano per sfociare a S di Tarragona con un vasto delta dalla
caratteristica forma lanceolata. Gli altri fiumi tributari del Mediterraneo
(Segura, Júcar), contraddistinti da corsi brevi e tumultuosi (ramblas)
e soggetti a piene improvvise e rovinose, hanno una dimensione regionale limitata.
Numerosi sono gli sbarramenti costruiti sui fiumi spagnoli; i maggiori bacini
si trovano sui corsi del Duero, del Guadiana, del Guadalquivir, del Tago. Clima
Dal punto di vista climatico la Spagna, data la sua posizione tra Atlantico
e Mediterraneo, dipende fondamentalmente dalla penetrazione delle masse d'aria
umide d'origine atlantica e dallo stabilirsi, più o meno prolungato e
tenace, delle masse d'aria anticicloniche mediterranee. Le prime investono con
particolare frequenza la facciata settentrionale della penisola, che è
di gran lunga la più piovosa; le masse d'aria anticicloniche predominano
sulla parte centrale e mediterranea, specie durante l'estate, che è sempre
siccitosa e molto calda: le precipitazioni su tutta la Spagna sono infatti prevalentemente
invernali e primaverili. Tuttavia, benché il territorio sia quasi completamente
circondato dal mare, per la disposizione dei rilievi, spesso direttamente allineati
lungo le coste, e la forma tozza della penisola, le terre dell'interno restano
al margine delle influenze marittime, per cui si può parlare di clima
continentale per quasi tutto il Paese, in particolare per la Meseta, la depressione
iberica e l'area più interna di quella andalusa. Nella fascia settentrionale
del Paese, interessata dal frequente passaggio dei cicloni atlantici, cadono
in media annualmente 1000 mm di pioggia, distribuiti con una certa regolarità
nell'arco annuale; sui versanti cantabrici e pirenaici esposti all'oceano, le
precipitazioni possono superare i 1500 e talora i 2000 mm annui: la Galizia
per esempio ha clima prettamente atlantico, umido tutto l'anno. La Spagna centrale
e la regione mediterranea sono sempre siccitose; in genere i valori di piovosità
sono inferiori ai 500-600 mm annui, con minimi anche di 200-300 mm annui, concentrati
nel periodo invernale, nelle depressioni più interne, in particolare
nella Mancha, nelle valli dell'Ebro e del Guadalquivir e nell'estremo lembo
sudorientale. Anche dal punto di vista termico vi sono differenze rilevanti
passando dalle zone costiere atlantiche, dove le temperature sono mitigate per
gli influssi atlantici sia d'inverno (8-10 ºC) sia d'estate (18-20 ºC),
a quelle interne, caratterizzate dalle marcate escursioni termiche tipiche dei
climi continentali: a Madrid dai 5 ºC di gennaio si sale ai 24 ºC
di luglio, con pochi giorni di gelo. Nella costa mediterranea, soleggiata, si
hanno estati calde ma non eccessive, grazie alla presenza del mare, e inverni
addolciti dai venti mediterranei (a Valencia 11 ºC in gennaio, 24 ºC
in luglio); la depressione andalusa invece ha caratteristiche climatiche che
già preannunciano la vicina Africa. Il clima fresco e umido della fascia
atlantica è all'origine della foresta a latifoglie e dei buoni pascoli
che inverdiscono i paesaggi della Galizia; il bosco di latifoglie, ancora rappresentato
da lembi consistenti, comprende tutte le specie diffuse nell'Europa nordatlantica,
in particolare la quercia e il faggio. Sui rilievi, specie su quelli pirenaici,
attecchiscono abeti e pini. Del tutto diverso – ma più peculiarmente
spagnolo – appare il paesaggio vegetale nella Meseta, dove, accanto a
specie arboree temperate, si ritrovano forme vegetali proprie dell'ambiente
arido subtropicale come la macchia arbustiva (monte bajo), talora con associazioni
tipicamente steppiche, fra le quali predominano l'alfa, lo sparto e l'artemisia:
nella valle dell'Ebro non mancano accenni al subdeserto, ma ovunque l'aspetto
estivo della Meseta è quello di una terra semiarida, steppica, con terreni
rossicci per le alterazioni dei suoli calcarei, oasi di pioppi o di vegetazione
riparia lungo i solchi fluviali. La regione mediterranea è dominata dalla
macchia (rosmarino, timo, lavanda ecc.) e da specie arboree come l'olivo, il
carrubo e la quercia da sughero; sulle pianure costiere, rigogliose oasi irrigue,
le huertas avviate dagli Arabi, costituiscono una nota caratteristica della
Spagna mediterranea. È da dire però che ovunque il territorio
è stato profondamente alterato dall'opera dell'uomo; il paesaggio agrario
si è soprattutto imposto su quello naturale nella cosiddetta “Spagna
arida”.
Geografia umana: il movimento demografico e migratorio
Il Paese fu abitato fin dai tempi più remoti da popolazioni che lasciarono
varie tracce della loro civiltà: delle più antiche popolazioni
della penisola i Baschi sembrano essere la più diretta testimonianza,
conservatasi nelle zone-rifugio dei Pirenei. Più tardi il lungo dominio
di Roma contribuì a unificare il Paese; si realizzarono notevoli progressi
in campo economico, che furono alla base dell'ingente aumento demografico, grazie
al quale la popolazione, già nell'età di Augusto, si stima raggiungesse
i 6 milioni di ab., massimamente addensata nella valle del Guadalquivir e nelle
pianure costiere orientali. Le invasioni barbariche rimossero per gran parte
il tessuto già costruito e causarono un significativo processo di ruralizzazione,
con progressiva decadenza dei nuclei urbani, commerciali e artigiani, e con
conseguente declino demografico, specie nelle regioni che durante l'Impero romano
erano state più fiorenti. Tale processo di ruralizzazione continuò
tuttavia soltanto nei nuclei cristiani del Nord; la Spagna meridionale conobbe
la penetrazione degli Arabi, il cui dominio rappresentò invece un elevato
grado di civiltà, ben evidente non solo in campo politico e religioso,
ma anche sul piano demografico ed economico, con l'inizio di una seconda importante
fase urbana, legata ai nuovi sviluppi delle colture irrigue degli agrumi, dell'olivo
e degli ortaggi. Elementi di raffinata cultura araba rimasero nelle città
(basti pensare a Cordova) e nelle campagne anche dopo che l'invasione fu respinta
a opera dei sovrani cristiani del Nord. Con la Reconquista, che vide la progressiva
cacciata degli Arabi, si andarono popolando le vaste regioni centrali, precedentemente
poco abitate, dove i sovrani cattolici – che già avevano contribuito
al popolamento della Spagna nordorientale – favorirono lo sviluppo di
nuove città sorte in buona posizione strategica (Ávila, Segovia,
Cuenca ecc.). In conseguenza di tale politica di riorganizzazione territoriale
(più tardi, all'epoca della grande espansione coloniale del Paese, vennero
invece valorizzati i centri portuali costieri) la popolazione toccò i
9 milioni di ab., con forti addensamenti, oltre che nella tradizionale Andalusia,
anche nelle Castiglie e nell'Estremadura. Tuttavia successivamente, soprattutto
a causa del grande deflusso di energie giovani verso le terre del Nuovo Mondo,
appena scoperto, la popolazione scese a 8 milioni nel sec. XVI, per diminuire
ancora in quello seguente. Il sec. XVIII segnò invece un notevole cambiamento
nella tendenza demografica del Paese: la popolazione si accrebbe con una certa
rapidità, specie a favore dell'area periferica, cui si contrapponeva
all'interno, in posizione centrale, la capitale Madrid, appositamente fondata
come espressione della concezione unitaria e assolutistica del potere. Da allora
l'incremento è stato costante e graduale e la popolazione, che nel 1833
contava ca. 12 milioni di ab., si raddoppiava poco più di un secolo dopo,
nonostante gli effetti negativi delle ingenti correnti migratorie e della guerra
civile, raggiungendo nel 1955 l'entità di 28,9 milioni di abitanti. È
da dire che l'emigrazione verso l'estero fu in un primo periodo (ca. 1860-1950)
rivolta massimamente verso l'America Latina: nella sola Argentina sbarcarono
tra il 1857 e il 1915 ca. 1,5 milioni di spagnoli. L'emigrazione transoceanica
toccò la massima vetta nel 1913, con ca. 230.000 partenze; successivamente
il movimento migratorio si rivolse all'Europa, specie dopo il 1950, sfiorando
nel 1964 le 200.000 partenze. Oggi vivono in America ca. 2,5 milioni di spagnoli
e nel resto d'Europa (soprattutto in Francia, Germania e Svizzera) ca. 1,5 milioni.
Geografia umana: caratteristiche attuali dello sviluppo demografico
La popolazione, che ha raggiunto ormai i 40 milioni di ab. e la cui densità
media – relativamente bassa per un Paese europeo – è di 79,6
ab./km2 (stima 2001), è distribuita in modo irregolare, rarefacendosi
nelle province interne più aspre e aride (Cuenca, Guadalajara, Huesca,
Teruel, Soria), poco abitate anche in passato, dove il latifondo ha creato un
ambiente inerte dal punto di vista storico-economico; le densità più
elevate si riscontrano lungo la costa, nella Catalogna (191 ab./km2; questo
valore e quelli successivi si riferiscono ad una stima del 1998), nella Comunidad
Valenciana (172), nelle Province Basche (290) e nelle Asturie (102), che sono
i principali centri d'attrazione dell'emigrazione interna. Si tratta di un'autentica
fuga dalle campagne e in genere dalle regioni più povere verso le coste,
un tempo per le attività commerciali legate ai traffici transoceanici,
oggi per quelle urbane e industriali. Una posizione a parte occupa nell'interno,
rimasto essenzialmente rurale, la provincia madrilena, dove si ha una densità
di 626 ab./km2: si tratta infatti di un'area vitalizzata dalla capitale, dal
suo ruolo sovrano nell'ambito del Paese e che ospita, con i vari agglomerati
periferici entrati a far parte del nucleo urbano, 5.091.336 ab., ossia quasi
un decimo dell'intera popolazione spagnola.
Geografia umana: l'organizzazione rurale
L'organizzazione rurale, basata sui piccoli nuclei comunali, ha ben conservato
i suoi caratteri tradizionali nei tipici villaggi aggregati (pueblos), spesso
assai lontani gli uni dagli altri, formati da case raccolte intorno al castello
o alla chiesa; la dimensione del villaggio è varia e intimamente legata
alle necessità e agli ambienti agrari, secondo regole che risalgono a
secoli ormai lontani. Nelle terre meridionali e nel Levante il villaggio, generalmente
di notevoli dimensioni, è posto su un'altura per motivi di difesa e presenta
i caratteri tipici dell'area mediterranea con le case ammassate e i muri imbiancati
dalla calce; nell'altopiano interno esso è invece situato per lo più
nelle conche, in funzione anche dell'approvvigionamento idrico, con abitazioni
spesso modeste, con strutture di legno e fango; nella regione pirenaica predomina
il piccolo villaggio di pastori e agricoltori che vivono in case di pietra,
così come nella regione cantabrica e galiziana, dove piccoli gruppi di
case sorgono negli angusti fondivalle. La casa sparsa si ritrova quasi esclusivamente
nelle huertas a coltura intensiva di tutta la fascia costiera meridionale e
della pianura andalusa.
Geografia umana: le principali concentrazioni urbanistiche
L'urbanesimo è ormai un fenomeno imponente. La struttura urbana, tradizionalmente
ben ordinata nelle calles e avenidas che s'incrociano formando una scacchiera
regolare, nobilitata dagli insigni edifici, pubblici e religiosi, del centro
storico e resa vivace da quella sorta di grande salotto che è la calle
mayor, “passeggio” obbligato dei suoi abitanti, stenta oggi a reggere
l'impatto del massiccio flusso immigratorio. Gli eccessi di concentrazione,
specie a Madrid e Barcellona, che a partire dal secolo scorso hanno assorbito
la maggior parte della popolazione venuta via dalle campagne, hanno creato gravi
incoerenze urbane, con quartieri di periferia caotici, privi o insufficientemente
dotati di adeguate abitazioni e di vari servizi essenziali. Alla pressoché
incontrollata espansione di Madrid e Barcellona si cerca oggi di porre rimedio
contrapponendo alle due metropoli una serie di poli di sviluppo (Valencia nel
Levante, Siviglia nella Spagna meridionale, Bilbao nella fascia cantabrica,
Saragozza nella valle dell'Ebro, Valladolid nella Meseta settentrionale ecc.)
per dare un assetto più organico all'organizzazione territoriale del
Paese, che ha conservato per troppo tempo numerose zone arcaiche e sottosviluppate.
La fortuna di Madrid (2.823.667 ab. nel 1998) si spiega sostanzialmente con
la sua posizione nel cuore geografico del Paese, di cui è il massimo
nodo di comunicazioni stradali, ferroviarie e aeree; creata artificiosamente
capitale per ragioni politiche, per essere cioè il simbolo, anche geografico,
del potere centrale, la città, ricca di testimonianze artistiche e culturali
consone al suo ruolo di grande capitale, svolge oggi intense attività
finanziarie, amministrative, commerciali e industriali (soprattutto industrie
leggere) e forma un grande agglomerato urbano con i centri secondari della sua
vasta periferia. Seconda città spagnola è Barcellona (1.454.695
ab. nel 1998) rilevante porto mediterraneo, il maggiore del Paese, avvantaggiato
dalla sua posizione allo sbocco delle vie naturali del retroterra e sul passaggio
obbligato delle vie che dai Pirenei scendono verso le città costiere
del Levante e che il recente sviluppo del turismo ha fortemente aumentato d'importanza
come nodo di comunicazioni; la città, cresciuta anch'essa in modo impressionante,
ma più organico di Madrid, costituisce con i vicini agglomerati di L'Hospitalet
de Llobregat, Badalona, Sabadell ecc., una vera e propria conurbazione, caratterizzata
da una forte attività industriale (specie tessile, automobilistica e
meccanica in genere) grazie anche alla vivacità imprenditoriale, tipica
dei catalani. Sempre sul Mediterraneo sorgono Valencia (735.738 ab. nel 1998),
terza città spagnola per numero di ab., sede di importanti industrie
e centro commerciale, sbocco di una huerta assai ricca, e Málaga (542.981
ab. nel 1998), città largamente turistica, vertice della rinomata Costa
del Sol; nell'interno, anch'essa in una fiorente area agricola, è Murcia
(349.816 ab. nel 1998). Nel bacino andaluso la città maggiore è
Siviglia (695.266 ab. nel 1998), situata sulla riva sinistra del Guadalquivir,
di cui è attivo porto; città d'antica origine e ricca di testimonianze
storiche e artistiche (già fiorente sotto il dominio arabo, mantenne
la sua importanza dopo la Reconquista), è oggi anche sede di rilevanti
industrie. Granada (242.823 ab. nel 1998), splendida città araba ricca
di insigni monumenti che testimoniano la sua passata grandezza (basti pensare
al complesso dell'Alhambra, tra le più alte espressioni dell'architettura
araba), capitale di un regno che sin quasi alle soglie del sec. XVI resistette
agli attacchi dei re cattolici (ultimo baluardo arabo, Granada cadde nel 1492),
e Cordova (307.464 ab. nel 1998), essa pure capitale di un potente califfato
arabo e uno dei massimi centri culturali del Medioevo, sono gli altri poli economici
della regione andalusa, centri commerciali e industriali, nonché città
turistiche di larga fama. Sull'Atlantico, nella Spagna settentrionale, c'è
un'altra fascia di elevata densità e urbanizzazione: qui si affacciano
vari porti, un tempo rivolti essenzialmente ai traffici con l'Europa nordoccidentale,
oggi attivati dallo sviluppo industriale (industria pesante), che può
attingere alle locali risorse minerarie (Asturie, Province Basche, Cantabria
ecc.). Grande centro industriale e commerciale, tra i più dinamici del
Paese, è Bilbao (351.084 ab. nel 1998), porto assai attivo, specie con
la Gran Bretagna e in genere con l'Europa settentrionale; La Coruña (241.443
ab. nel 1998) e Vigo (286.774 ab. nel 1996), nella Galizia, sono anche importanti
centri pescherecci; attivi per traffici e industrie varie sono inoltre Gijón
(264.381 ab. nel 1998) e Santander (182.676 ab. nel 1998). Nella Meseta, dove
città un tempo vitalissime hanno ormai un ruolo molto modesto (basti
pensare a Toledo, che a ricordo della passata grandezza è rimasta il
massimo centro religioso del Paese, sede del primate di Spagna), unico rilevante,
dinamico centro industriale è Valladolid (316.956 ab. nel 1998); un po'
meno Salamanca (158.003 ab. nel 1998) e Burgos (162.386 ab. nel 1998), città
dell'antica nobiltà e alta borghesia leonese e castigliana. Di notevole
importanza in quanto considerata nuovo polo di sviluppo nell'ambito dei recenti
piani di riorganizzazione territoriale è infine Saragozza (600.781 ab.
nel 1998), capoluogo dell'Aragona, centro commerciale e manifatturiero, sede
di numerose industrie automobilistiche, chimiche, vetrarie e alimentari, importante
nodo ferroviario e stradale a controllo delle vie che dalla Catalogna danno
accesso alla Meseta.
Economia: generalità
A partire dalla guerra civile, la Spagna si chiuse in un vero e proprio isolamento
politico: fu tra l'altro uno dei pochissimi Stati d'Europa a rimanere neutrale
nel corso del secondo conflitto mondiale e solo nel 1955 volle entrare a far
parte dell'ONU. Ne derivò inevitabilmente una serie di “ritardi”
economici del Paese rispetto agli altri Stati europei; ma a partire dalla fine
degli anni Cinquanta la Spagna dava avvio a un radicale processo di rinnovamento.
L'ingresso nell'OECE, l'Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica,
avvenuto nel 1959, può essere indicato come ben preciso inizio di questa
svolta (il 1º gennaio 1986 si è compiuta un'altra fondamentale tappa
nel processo d'integrazione della Spagna nel contesto internazionale, l'adesione
alla CEE). Un Paese sino ad allora rimasto chiuso nell'ambito di una politica
economica autarchica e protezionistica, la quale era peraltro riuscita a salvaguardare
il tradizionale settore tessile oltre a quello siderurgico e metalmeccanico,
optava dunque per la scelta “europea”; tale scelta, che poneva in
luce tutte le arretratezze strutturali del Paese, implicava chiaramente la volontà
di conseguirne il superamento, onde poter competere con l'estero. Furono sistematicamente
valorizzate le risorse naturali e costruite nuove centrali termo- e idroelettriche;
furono favoriti gli investimenti stranieri nell'industria, che qui trovava abbondante
manodopera; infine, il Paese, di cui venivano opportunamente reclamizzati i
rimarchevoli interessi storici e artistici e le non meno notevoli bellezze naturali,
si “apriva” ai turisti, il cui afflusso si fece ben presto imponentissimo
(con conseguente cospicuo apporto valutario): erano poste le premesse per il
successivo “decollo”. Amplissimo è lo spazio lasciato all'iniziativa
privata, settore in cui rimangono consistenti le facilitazioni alle società
straniere che hanno oggi in mano molte delle principali attività industriali
spagnole. A partire infatti dalla metà degli anni Sessanta, numerosi
gruppi multinazionali investirono nel Paese ingenti capitali, attratti da un
insieme di condizioni eccezionalmente favorevoli. Da parte sua il governo spagnolo
impresse un nuovo dinamismo alla politica economica e finanziaria ottenendo
degli incrementi produttivi da “miracolo economico”, soprattutto
nei settori chimico e metalmeccanico. Ma al primo manifestarsi dei sintomi della
recessione e della crisi energetica mondiale sono venute alla luce le debolezze
e le contraddizioni del rapido sviluppo economico di un Paese che, tra l'altro,
dipende dall'estero per la quasi totalità del proprio rifornimento di
petrolio: sono così ormai palesi il limite strutturale di un assetto
produttivo in gran parte subordinato agli interessi stranieri, l'arretratezza
del settore agricolo, l'aggravarsi del deficit della bilancia commerciale, l'accentuarsi
degli squilibri sociali (in particolare marcate sono oggi le inquietudini nel
mondo del lavoro, dove la disoccupazione è tra le più alte d'Europa)
e dei non meno forti divari esistenti fra le diverse regioni del Paese. Il problema
regionale spagnolo, di dimensioni assai vaste, è d'antica data e non
si presenta facile da risolvere; lungi dall'averlo appianato, l'impetuoso sviluppo
economico ne ha al contrario accentuato gli aspetti negativi. L'industrializzazione
infatti ha determinato un ingentissimo movimento migratorio interno, che ha
coinvolto vari milioni di spagnoli. Le zone ad economia tipicamente agricola
e pastorale hanno visto ulteriormente abbassarsi il loro già debolissimo
valore demografico, mentre la popolazione si va sempre più concentrando
in alcune aree (attorno a Barcellona, Madrid ecc.), accentuandone la già
massiccia urbanizzazione, la quale notoriamente richiede che sia realizzata
una vasta gamma di servizi sociali e di idonee infrastrutture, per non parlare
degli alti costi della tutela ambientale e territoriale. La bilancia commerciale
in tale periodo ha così segnato un notevole deficit, solo parzialmente
attenuato a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, quando l'economia
spagnola ha registrato una vivace crescita, con tassi tra i più elevati
in Europa, grazie ai forti investimenti pubblici e alla crescita della domanda
interna (va comunque tenuto in considerazione il ruolo fondamentale svolto dal
capitale straniero). Attuata la ristrutturazione del sistema industriale e perseguita
una rigorosa politica deflazionistica nonostante il forte scontento popolare,
l'economia dei primi anni Novanta ha visto crescere gli investimenti nei settori
più moderni della produzione, giovandosi anche di un positivo sviluppo
del settore finanziario e del mercato borsistico. Dal punto di vista settoriale,
la Spagna rimane un Paese marcatamente agricolo. L'industria ha superato la
divisione tra un settore artigianale scarsamente avanzato e i moderni impianti
industriali. Numerose e diversificate sono le branche del settore, ma mentre
le industrie tradizionali perdono di importanza, gli investimenti si orientano
principalmente verso attività ad alta tecnologia, come informatica e
telecomunicazioni. Il saldo della bilancia commerciale (ormai quasi del tutto
relativa a scambi intracomunitari) è in costante passivo, mentre quello
della bilancia dei pagamenti è in parte compensato dalle entrate derivanti
dalle rimesse degli emigrati e dal turismo. Fra i principali problemi strutturali
rimane senz'altro lo squilibrio regionale, assai accentuato, che si cerca di
contrastare con una dispendiosa politica di lavori pubblici (in particolare
nelle comunicazioni stradali). La crescita elevata degli ultimi anni ha comunque
ripianato il deficit pubblico, rendendo possibili ulteriori riduzioni della
pressione fiscale (tra le più contenute tra i Paesi dell'UE). La disoccupazione,
che resta invece tra le più alte in Europa, è scesa a meno del
14% grazie alla diffusione del lavoro interinale e dei contratti a termine,
che costituiscono un terzo del lavoro subordinato complessivo (e i tre quarti
per i lavoratori sotto i 25 anni). È leggermente migliorata anche la
competitività internazionale del Paese che nel 2001 è passato
dal 24º al 23º posto nella classifica mondiale dell'IMD (Institute
for Management Development) di Losanna.
Economia: agricoltura
Le attività del settore primario hanno registrato nell'ultimo ventennio
un sensibile decremento sia nel numero degli addetti sia nella partecipazione
del settore alla formazione del prodotto nazionale. L'agricoltura spagnola si
presenta nel suo insieme ancorata a schemi tradizionali e su di essi il moderno
progresso tecnico ha potuto sinora incidere solo in limitata misura. Nuovi impulsi
sono venuti dalla politica agraria governativa, impegnata a estendere la meccanizzazione
delle colture, a favorire l'insediamento dei coloni per frenare il crescente
esodo dalle campagne, a realizzare imponenti opere irrigue, a facilitare l'accorpamento
delle proprietà nelle zone dove predomina il microfondo: uno degli ultimi
esempi è il programma di riforma agraria avviato nel 1985 in Andalusia,
che permetteva di espropriare le terre concedendole in affitto o favoriva la
formazione di cooperative contadine, mentre sensibili si sono rivelati i contributi
versati dalla CEE per il miglioramento del settore. La fondamentale divisione
in Spagna umida e Spagna arida è non meno determinante per quanto riguarda
le attività agricole; ancor più a tale ripartizione non corrispondono
solo colture particolari, ma vere e proprie regioni aventi un inconfondibile
paesaggio agrario. La Spagna arida a sua volta comprende sia aree con colture
che non richiedono irrigazione (secano) sia aree con colture irrigue (regadío).
Le aridocolture sono proprie della Meseta, delle depressioni dell'Ebro e delle
coste mediterranee non irrigate, dove i cereali si alternano alle colture legnose
(oliveti, vigneti). Vi prevale il latifondo con rese naturalmente basse e una
gamma di colture non molto diversificate. Le zone a coltura irrigua intensiva,
eredità degli antichi dominatori Arabi (che introdussero in Spagna nuove
piante come l'arancio, il mandorlo, il riso, la canna da zucchero, il gelso),
nel passato limitate in genere alle piccole pianure costiere del Levante e alla
zona di Granada (aree famose per le loro huertas) sono oggi presenti anche nell'altopiano
grazie alla realizzazione di grandi opere di sbarramento dei corsi fluviali
e di canalizzazione (una splendida huerta si estende per esempio lungo le sponde
dell'Ebro da Logroño a Saragozza). Nel complesso, però, le zone
a regadío, pur prestandosi alle più svariate colture, soprattutto
di primizie ortofrutticole e di colture industriali (barbabietola e canna da
zucchero, cotone, tabacco) hanno un'estensione ancora piuttosto limitata. Infine
nella Spagna umida, corrispondente alla fascia atlantica dalla Galizia alla
Navarra, si pratica una policoltura intensiva associata all'allevamento bovino
(è questa infatti la Spagna “bovina” per eccellenza) favorito
dai ricchi prati e pascoli, e allo sfruttamento di boschi rigogliosi. Prevale
la piccola proprietà; il microfondo raggiunge le punte estreme in Galizia.
La cerealicoltura, di antica tradizione, ha le sue aree più importanti
nell'Aragona, nelle Castiglie e nell'Andalusia. Rilevante è l'apporto
dell'orzo largamente utilizzato per il bestiame; segue per importanza il frumento.
Buone prospettive ha la coltura del riso, propria delle zone a regadío
dell'Andalusia e del Levante, nonché delle zone acquitrinose del basso
Guadalquivir; sono invece coltivate soprattutto nel Nord l'avena e la segale.
Tra i prodotti alimentari di vasto consumo sono altresì le patate, che
trovano le loro aree più adatte lungo i limiti meridionali della Meseta
e dell'Estremadura. Grande importanza rivestono le colture legnose, in specie
la vite, l'olivo e gli agrumi. La viticoltura si estende dalle province meridionali
sino al León, grazie al clima caldo e asciutto e l'uva è ampiamente
al servizio di una ricca e prestigiosa industria enologica. La Spagna è
altresì uno dei massimi produttori del mondo di olio di oliva, alternando
il primato con l'Italia; l'olivocoltura è rappresentata soprattutto nell'Andalusia.
Nelle zone a regadío del Levante sono concentrate le colture frutticole,
in primo luogo quella degli agrumi; la buona produzione di arance, mandarini
e limoni, provenienti per gran parte dalle huertas di Valencia e Castellón
de la Plana, consente alla Spagna un'ottima collocazione su scala mondiale.
Elevati raccolti danno pure i fichi, le mandorle, le mele, le pere, le albicocche,
le banane, i datteri che, unici in Europa, si ricavano dai palmeti di Elche.
Nelle huertas si hanno altresì cospicui raccolti di prodotti orticoli,
come pomodori, cipolle, fagioli, fave ecc. È del pari vasta la gamma
delle colture industriali, tra le quali primeggiano la barbabietola da zucchero
e il cotone; si coltivano inoltre tabacco, canna da zucchero, luppolo e varie
oleaginose (arachidi, girasole, soia, colza ecc.). Le foreste, le più
rigogliose delle quali si estendono nella zona cantabrica e in quella pirenaica,
occupano il 32% della superficie territoriale; essenza di grande valore è
il sughero, frequente nell'Andalusia occidentale, nell'Estremadura e nella Catalogna
e che alimenta industrie quasi esclusivamente catalane.
Economia: allevamento e pesca
L'allevamento è un settore in cui la Spagna vanta un'antica tradizione,
ma – come per l'agricoltura – vi permangono vaste sacche di arretratezza
nelle strutture produttive. Prevalgono numericamente gli ovini; in regresso
l'allevamento caprino mentre si tende a potenziare quello bovino e quello suino;
a 51 milioni ammontano i volatili da cortile. Nella Murcia è praticata
la sericoltura. Discreta importanza riveste la pesca, settore modernamente organizzato,
i cui introiti sono determinanti per l'economia nazionale: tonni, seppie, naselli,
acciughe, sardine e molluschi sono presenti in abbondanza nei mari spagnoli.
Tra i centri pescherecci più importanti si annoverano Vigo, Pasajes,
Huelva, Algeciras, Cádice, La Coruña.
Economia: risorse minerarie
Vasta è la gamma delle risorse minerarie, molte delle quali conosciute
e sfruttate fin dai tempi più antichi. Si segnalano in particolare i
minerali di ferro, estratti principalmente dai giacimenti cantabrici, quindi
da quelli del Sistema Iberico e del Sistema Betico; fra gli altri minerali metalliferi
un posto di importanza primaria spetta al piombo, proveniente dalla Sierra Morena,
e allo zinco, estratto nella regione di Santander e nelle Province Basche, per
entrambi i quali la Spagna occupa un ottimo posto a livello europeo. Notissimo
è il mercurio di Almadén (Ciudad Real), già conosciuto
al tempo dei Romani e per la cui produzione la Spagna si pone tra i primi produttori
mondiali; minore importanza rivestono i giacimenti di rame. Il Paese si segnala
invece per le piriti, pregiate per l'elevato contenuto di zolfo, con principali
giacimenti nella zona di Ríotinto. Cospicua è anche la produzione
annua di salgemma e salmarino; si segnalano ancora la potassa, la magnesite,
quindi manganese, antimonio, tungsteno, stagno, bauxite, oro e argento. Le riserve
carbonifere sono discrete, ma sono tuttavia del tutto insufficienti alle necessità
dell'industria; scarso rilievo ha la produzione petrolifera (giacimenti presso
Valladolid e Burgos), cui si aggiungono quantitativi piuttosto modesti di uranio,
estratti nella zona di Lérida. Quanto al settore energetico, benché
sia stato potenziato, la produzione di energia elettrica resta notevolmente
inferiore a quella dei Paesi industrializzati dell'Europa occidentale. L'energia
elettrica fu dapprima eminentemente d'origine idrica grazie alla realizzazione
di numerose centrali localizzate inizialmente sull'alto corso dei fiumi, specie
nella regione dei Pirenei orientali, in funzione delle industrie della Catalogna,
poi lungo il corso medio delle arterie fluviali maggiori (Ebro, Duero, Tago),
favorendo in tal modo varie altre città, come Valladolid e Madrid. Oggi
però il Paese dispone di numerose centrali termiche, dislocate principalmente
nel Nord, nel Levante e nell'Andalusia, alimentate sia da carbone nazionale
sia, sempre più, da petrolio d'importazione; un certo peso ha assunto
il settore nucleare, sfruttando l'uranio di Lérida.
Economia: industria
L'industria costituisce una struttura portante dell'economia spagnola: oltre
al consolidamento delle capacità produttive, essa ha conosciuto significativi
progressi nella composizione qualitativa. I principali distretti industriali
continuano a essere quelli di più antico impianto, vale a dire il Nord
del Paese, essenzialmente le Province Basche, dove operano numerosi complessi
meccanici, avvantaggiati dalle risorse minerarie della zona cantabrica, la Catalogna,
che, in aggiunta alle tradizionali attività tessili, ha ormai attivissime
industrie chimiche e meccaniche, il Levante, in particolare Valencia, dove sempre
fiorentissimo è il settore alimentare, infine l'area attorno alla capitale,
che annovera importanti complessi chimici e meccanici. L'industria spagnola
copre oggi pressoché tutti i settori produttivi anche se mostra un continuo
incremento dell'industria manifatturiera rispetto a quella estrattiva, che fu
all'origine di fondamentale importanza nell'economia del Paese. Buon livello
europeo presenta la siderurgia, concentrata nell'area di Vizcaya (Province Basche),
nelle Asturie, in Catalogna (produzione di acciai speciali) e presso Sagunto
(Valencia): come ovunque in Europa, risulta però colpita, negli ultimi
anni, da una profonda crisi con sensibili effetti occupazionali. Principali
prodotti dell'industria metallurgica, che presenta una più varia e articolata
ubicazione e che in larga misura lavora anche minerali d'importazione raggiungendo
ormai produzioni di tutto rispetto su scala europea, sono l'alluminio, il rame,
il piombo, lo stagno, lo zinco; inoltre buona parte del carbone estratto viene
trasformata in coke metallurgico. Rilevante sviluppo ha avuto il settore meccanico,
rivolto in primo luogo alla costruzione di mezzi di trasporto, ma anche di macchinari
d'ogni genere e di utensili vari. Così locomotive e materiale ferroviario
sono prodotti a Barcellona, Madrid, Valencia; il distretto siderurgico asturiano-basco
fornisce laminati di acciaio, rotaie ecc.; a Barcellona si produce anche macchinario
di alta precisione. L'industria automobilistica, in cui parte determinante ha
avuto e continua ad avere la partecipazione delle società straniere,
è ubicata in prevalenza nelle grandi città. Ad essa è per
lo più collegata la fiorente industria della gomma, con sede principale
a Barcellona. L'industria navale ha i principali centri a El Ferrol, Cartagena,
Cádice, Barcellona e Bilbao; Siviglia e Cádice sono anche sedi
di complessi aeronautici. Straordinaria espansione ha registrato l'industria
chimica; è concentrata in Catalogna, ma sono sorti vari impianti anche
nell'area asturiana-basca, favorita dai sottoprodotti della metallurgia, nonché
in taluni centri dell'interno, come Madrid, Valladolid e Saragozza. Ottima è
la produzione di acido solforico, che si ricava dalle abbondanti piriti nazionali;
un ruolo minore, ma non modesto nell'ambito europeo, rivestono anche le produzioni
di fertilizzanti azotati, di resine sintetiche e materie plastiche, di acido
nitrico e cloridrico, di soda caustica ecc. Conserva il suo ruolo l'industria
tessile. Importanza minore ha il lanificio, cui si aggiungono buone produzioni
di fibre tessili artificiali e sintetiche, di filati di lino, canapa, iuta ecc.
L'industria alimentare preminente è quella saccarifera, che opera per
gran parte nelle aree di produzione della canna e della barbabietola da zucchero,
con principali stabilimenti a Saragozza e in altri centri della valle dell'Ebro;
di rilievo sono anche l'industria della birra, gli oleifici, gli stabilimenti
conservieri, quelli lattiero-caseari; le manifatture di tabacco. L'industria
della carta ha la sua massima ubicazione nelle Province Basche, in Catalogna
e a Valencia. Le lavorazioni del vetro (che vanta numerosi stabilimenti, tra
cui notevoli quelli di Bilbao e di Arija, presso Santander, di La Granja ecc.),
della ceramica (a Talavera de la Reina, a La Cartuja presso Siviglia ecc.),
della concia delle pelli e del cuoio completano il quadro dell'industria spagnola.
Particolare dinamismo hanno mostrato, nel più recente periodo, i comparti
dell'elettronica e delle telecomunicazioni.
Economia: comunicazioni e commercio
Insufficiente e piuttosto disorganico è il sistema della viabilità
interna, in cui non indifferente è il ruolo esercitato dalla morfologia
nel determinare vari fondamentali flussi di traffico. Nella rete viaria si può
individuare una decina di tracciati base, che si irradiano da Madrid verso i
margini del Paese, seguendo di preferenza gli andamenti vallivi. Si dimostra
invece particolarmente inadeguata a sostenere i ritmi impressi dall'accelerata
espansione economica la rete ferroviaria, servita in genere con attrezzature
scadenti; essa si basa essenzialmente sulla RENFE (Red Nacional de Ferrocarriles
Españoles), nazionalizzata sin dal 1941 e caratterizzata dalla scarsa
elettrificazione – su un totale, già di per sé molto modesto,
di ca. 12.000 km, solo poco più della metà sono elettrificati
– e dal dover compiere spesso percorsi tortuosi per difficoltà
causate dal rilievo e dalla necessità di soddisfare esigenze locali (per
la rete ferroviaria, come per le strade, lo sviluppo fu concepito in funzione
della capitale). Dal 1992 è attiva una linea ferroviaria ad alta velocità
da Madrid a Siviglia, che verrà prolungata fino a Barcellona. Anche se
ancora inadeguata alle necessità del Paese, la rete stradale è
in via di ampliamento. Le comunicazioni marittime fanno capo a numerosi porti
modernamente attrezzati, tra cui predominano quello di Barcellona per il movimento
passeggeri e di Bilbao per il movimento merci; altri porti di notevole traffico
sono Santander, Siviglia, Valencia, Gijón ecc. L'incremento degli scambi
con l'estero ha favorito lo sviluppo della flotta mercantile. Le comunicazioni
aeree all'interno del Paese non svolgono un ruolo di grande importanza; attivissimi
sono invece i collegamenti con l'estero. Compagnia di bandiera è l'Iberia,
che effettua servizi sia nazionali sia internazionali; il Paese dispone di una
ventina di aeroporti internazionali, tra i quali predominano quelli di Barajas
(Madrid) e di Barcellona. ? Il commercio interno svolge un ruolo di primo piano
nella vita economica del Paese in relazione alla ormai assai vasta gamma di
prodotti offerti dal mercato e all'aumento dei consumi di massa. Gli scambi
interni più notevoli avvengono fra il Nord industriale e le aree agricole
del Sud, mentre Madrid esercita l'attrazione propria di un vasto centro polifunzionale
metropolitano dalle rilevanti dimensioni demografiche. Negli anni Ottanta ha
avuto un notevole consolidamento il settore finanziario e il mercato borsistico.
Anche il movimento commerciale con l'estero ha registrato una straordinaria
espansione e diversificazione delle voci merceologiche; i prodotti alimentari
e agricoli in genere, per il passato alla base delle esportazioni spagnole,
sono ora largamente soppiantati dai più vari prodotti industriali, specie
chimici, tessili, del cuoio ecc., quindi da macchinari e mezzi di trasporto,
ferro e acciaio. Le importazioni sono eminentemente rappresentate da petrolio
e altre materie prime e da macchinari per lo più a elevata tecnologia,
che il Paese non è ancora in grado di produrre, ma anche da generi alimentari,
specie cereali. Il forte deficit della bilancia commerciale rivela l'alto costo
che il Paese ha pagato e continua a pagare, sia per la sua industrializzazione
sia per soddisfare le molte esigenze che l'aumentato tenore di vita della popolazione,
in particolare di quella urbana, oggi richiede. Gli scambi più rilevanti
si svolgono nell'ambito della UE (Francia, Germania, Italia, Portogallo, Paesi
Bassi), con gli Stati Uniti e, per quanto riguarda le importazioni di petrolio,
con l'Arabia Saudita: un impulso positivo è venuto dopo l'ingresso nella
CEE (1986) e la partecipazione allo SME (1989). Conserva la sua importanza il
turismo.
Istruzione
Il periodo più indicativo per la formazione dell'indirizzo pedagogico
spagnolo è quello del Rinascimento: nei sec. XV e XVI sorsero infatti
alcuni fra i maggiori centri d'istruzione. La struttura scolastica moderna spagnola
è, a grandi linee, modellata ancor oggi sulle istituzioni scolastiche
del passato. La creazione del Ministero della pubblica istruzione risale al
1900. L'istruzione è obbligatoria dai 6 ai 14 anni. Secondo il programma
di riforma varato nel 1991, l'obbligo scolastico è stato protratto fino
a 16 anni. L'obbligo scolastico si può assolvere interamente nelle scuole
primarie oppure per i primi quattro anni nella scuola primaria e per i rimanenti
anni negli institutos o colegios. Al termine di questi otto anni viene rilasciato
il bachillerato elemental. L'intero territorio nazionale è suddiviso
in distretti scolastici. La struttura dell'organizzazione scolastica spagnola
si articola in tre cicli principali: elementare, secondario e universitario.
Le scuole primarie sono suddivise in scuole statali, scuole ecclesiastiche,
scuole di patronato, scuole per stranieri e scuole private. L'insegnamento secondario
è diviso in generale e tecnico. Quello generale (prevalentemente teorico),
impartito negli institutos o colegios e della durata di sette anni, è
distinto in tre cicli: elementare, con quattro anni di studio, superiore, biennale,
con specializzazione in lettere o in scienze, al termine del quale viene rilasciato
il bachillerato superior, pre-universitario, annuale. L'insegnamento tecnico
e professionale è impartito in istituti che forniscono una preparazione
generale e insieme pratico-scientifica. L'istruzione superiore si svolge nelle
università vere e proprie e nelle universidades laborales, scuole tecniche
superiori che conferiscono i gradi di architetto e di ingegnere nelle diverse
specialità. Il sistema universitario prevede tre cicli di studi. Il primo,
che porta alla diplomatura, dura tre anni; il secondo ciclo, della durata di
due o tre anni, conferisce la licenciatura; dopo un terzo ciclo di due anni
si ottiene infine il titolo di dottore. La riforma scolastica del 1970 ha istituito
nelle università i dipartimenti, le cui funzioni sono quelle di coordinare
i vari insegnamenti e di promuovere progetti, ricerche di gruppo e lo sviluppo
didattico e scientifico. Sedi universitarie sono Barcellona (1450; Università
autonoma, 1968), Bilbao (1967), Deusto (1886), Comillas (1892), Granada (1526),
La Laguna, Isole Canarie (1701), Madrid (1508; Università autonoma, 1968),
Murcia (1919), Pamplona (1952), Oviedo (1608), Salamanca (1287, 1838), Santiago
(1520), Siviglia (1502), Valencia (1500), Valladolid (1346), Saragozza (1533).
Vi sono inoltre 8 università tecniche e vari istituti superiori.
Preistoria
Ben conosciuto in numerosi giacimenti localizzati per lo più in sistemi
di terrazzi alluvionali è il Paleolitico inferiore. Al complesso pre-acheuleano
appartengono le industrie di Cullar Baza I, vicino a Granada, con faune riferite
al Mindel, mentre resti paleontologici molto arcaici, ma privi di contesto archeologico,
sono stati rinvenuti in località Venta Micena (Granada). Diverse fasi
dell'Acheuleano sono note, per esempio, nel sito all'aperto di Pinedo, vicino
a Toledo (Acheulano antico), a Aridos, vicino a Madrid (dove è stato
rinvenuto un interessante sito di macellazione di elefante), Torralba e Ambrona
(Soria) ecc. Nella grotta di Atapuerca, vicino a Burgos, già nota per
la presenza di industrie acheuleane associate a resti umani e fauna del Pleistocene
medio, sono stati recentemente rinvenuti altri due crani umani in buono stato
di conservazione, con caratteri che ricordano Homo sapiens arcaico. Resti umani
riferiti a Homo sapiens neandertalensis o al gruppo degli anteneandertaliani
provengono dai depositi rissiani o, secondo alcuni autori, würmiani, dalla
grotta di Cova Negra, vicino a Valencia. Il Paleolitico medio è noto
soprattutto in giacimenti in grotta. Alcuni dei più importanti giacimenti,
dove sono segnalate diverse facies del Musteriano, sono: il Riparo Romani, con
livelli del Musteriano a denticolati privo di tecnica Levallois e del Musteriano
di tradizione acheuleana, i livelli inferiori della Cueva Morin e di El Pendo
(Santander), Devil's Tower e Gorham Cave a Gibilterra, con Musteriano charentiano
tipo Ferrassie, la grotta di Los Casares (Guadalajara), di Mollet, Toroella
de Montgri e Cariguela (Granada) con Musteriano tipico, la grotta di El Castillo,
vicino a Santander, dove è stata messa in luce una lunga sequenza compresa
tra il Musteriano e il Magdaleniano, con importanti manifestazioni di arte parietale
e mobiliare. Le fasi più antiche del Paleolitico superiore sono attestate
in grotte come L'Arbreda (Gerona) e Cueva Morin con industria castelperroniana,
datata a 36.950?6580 da oggi, e livelli dell'Aurignaziano. Diversi livelli riferiti
alla successiva fase del Paleolitico superiore (Gravettiano) sono noti nella
già citata grotta de L'Arbreda (C14: 20.130 da oggi), nella grotta di
Beneito (Alicante), al Castillo, a Cueto de la Mina nelle Asturie, a Mallaetes
e al Parpallo (Valencia), alla Cueva Morin, a El Pendo ecc. Particolarmente
importante è l'espansione del Solutreano con datazioni comprese tra 21.000
e 16.000 anni da oggi, individuato in numerose grotte, cui seguono, nella sequenza
generale delle industrie della fine del Pleistocene superiore e dell'Olocene
antico, livelli del Magdaleniano (C 14: 13.500-8300 a. C. circa) e dell'Aziliano,
con datazioni intorno a 10.500-9500 anni da oggi. Eccezionale sviluppo, in particolare
durante il Magdaleniano, ma con notevoli esempi riferiti al Solutreano, hanno
le diverse manifestazioni di arte parietale nella regione franco-cantabrica,
attestate in siti come Altamira, i cui livelli magdaleniani sono datati a 15.000
anni da oggi. Dei tempi neolitici sono notevoli i ritrovamenti delle grotte
delle province orientali e quelli della cultura detta delle tombe a fassa. Una
facies diffusa in tutto il territorio iberico è quella del bicchiere
campaniforme; alla metà del III millennio compare, nella parte sudorientale
della penisola, dove la ricchezza mineraria (soprattutto di stagno) costituisce
una sicura attrattiva per i contatti con genti alloctono, la ricca facies di
Los Millares; il particolare sviluppo di questa parte della penisola, in cui
un precoce sviluppo di forme di differenziazione sociale è dovuto anche
alla necessità di mobilitare il lavoro delle comunità in impianti
di irrigazione, resi necessari dalle aride condizioni climatiche, è evidente
anche nella successiva fase di El Argar, cui è coeva, nella Mancha, la
cultura di Las Motillas. Nella tarda Età del Bronzo si sviluppa la facies
del Suroeste, mentre, già a partire dal sec. X a. C., i siti di cultura
“tartessia” rappresentano spesso la prima fase “di villaggio”
di centri destinati a raggiungere, nel periodo iberico, un livello protourbano.
Storia: il periodo romano e preromano
Tra gli Iberi, primitivi abitanti della Spagna affermatisi soprattutto nella
ricca zona sudoccidentale, si vennero presto a inserire, attratti dalle ricche
miniere di argento e di rame e da un'agricoltura fattasi prospera, i più
antichi navigatori del Mediterraneo orientale: i Fenici, che installarono empori
a Gades e Málaga, gli Egeo-Cretesi e, verso i sec. VIII-VII a. C., anche
i Greci provenienti da Marsiglia che installarono basi sulla costa orientale.
Successivamente, intorno al sec. VI, si ebbero dal Nord verso la zona centroccidentale
della penisola immigrazioni di Celti che si fusero con gli Iberi dando origine
alla popolazione mista dei Celtiberi. Contemporaneamente iniziò l'azione
colonizzatrice dei Cartaginesi che in breve riuscirono a subentrare ai Fenici
e a imporsi agli Iberi e, dopo la battaglia del 535 a. C. ad Alalia, nelle acque
della Corsica, anche ai Greci estendendo così il loro predominio sulle
fasce costiere orientali e meridionali della Spagna. Durante la I guerra punica
(264-241 a. C.), le popolazioni spagnole si ribellarono ai Cartaginesi, ma questi,
pur soccombenti nel conflitto, con Amilcare e, più tardi, con Annibale,
tornarono a instaurare la propria preminenza nella penisola. Scoppiata la II
guerra punica (218-212 a. C.), la Spagna divenne anch'essa teatro del conflitto
e, dopo la presa di Cartagena a opera di Scipione nel 209 a. C., le sue zone
cartaginesi, nucleo delle future province della Spagna Citeriore e Ulteriore,
passarono sotto il controllo romano. L'ordine imposto da Roma suscitò
subito a più riprese rivolte e guerriglie tra le tribù interne,
specialmente tra i Lusitani e i Celtiberi, che impegnarono duramente per anni
le legioni romane: successi ottennero contro di esse Catone, inviato in Spagna
nel 195, e, soprattutto, Tiberio Sempronio Gracco, padre dei futuri tribuni,
che assunse il comando delle operazioni nell'anno 179 e, col suo atteggiamento
benevolo nei confronti delle tribù locali sottomesse, assicurò
alla penisola un ventennio di pace. Nel 154, alla ripresa dei moti di rivolta,
Roma, temendo che Cartagine ne approfittasse per riprendere le sue mire espansionistiche,
inviò in Spagna un esercito di circa trentamila uomini che, tuttavia,
riuscì ad aver ragione dei ribelli solo con Scipione Emiliano che nel
133 fece capitolare, dopo un assedio estenuante, la città di Numanzia,
ultimo centro della resistenza dei Celtiberi. L'intera penisola passò
così sotto il controllo di Roma e da allora iniziò, pur con nuove
rivolte locali, il processo di romanizzazione, soprattutto grazie a insediamenti
coloniali. Nel sec. I a. C. si ebbe però in Spagna un generale moto insurrezionale
e a mettervisi a capo fu Sertorio, che, dopo aver militato nelle file di Mario,
aveva abbandonato l'Italia con altri, sottrattisi alle contese civili del tempo.
Sertorio riuscì addirittura a staccare la Spagna da Roma, ma la rivolta
fu presto stroncata da Pompeo (73), che si trattenne poi sul posto per qualche
tempo a riorganizzare la provincia. Nel 68 a. C. fu questore in Spagna Cesare
che vi tornò nel 45 quando, a Munda, spense l'ultimo focolaio di resistenza
pompeiana. Nel 29 a. C. le rivolte ripresero violente tanto che Augusto stesso
rimase in Spagna dal 27 al 24, quando la situazione parve migliorare; ma quando
essa tornò ad aggravarsi nel 22 e nel 19 a. C., Agrippa si spinse nelle
montagne dell'interno e pose fine definitivamente al problema spagnolo massacrando
e trapiantando in pianura le tribù ribelli. Augusto divise la Spagna
in Citerior o Tarraconensis, Lusitania, e Ulterior o Baetica, province imperiali
le prime due e senatoria la terza; più tardi separò dalla Citerior
le Asturie e la Callaecia che costituirono la provincia di Callaecia un secolo
più tardi. Nel riordinamento amministrativo di Diocleziano la Spagna,
costituita in diocesi, fu divisa in sei province, tra le quali le Baleari e
la Carthaginiensis staccate dalla Tarraconensis. I secoli di dominio romano
lasciarono ovviamente molte e durature tracce in Spagna e, in concreto, numerose
e belle città, una splendida rete stradale, ponti e acquedotti (il tutto
finanziato da un intenso sfruttamento delle risorse del Paese: metalli, vini,
oli, cereali), nonché un meccanismo politico-burocratico molto solido.
La dominazione romana tuttavia non risolse, ma al contrario acuì, la
differenziazione fra i grandi possidenti terrieri (veri latifondisti, nel Meridione)
– che molto spesso erano i “regoli” delle antiche tribù
iberiche, divenuti proprietari sotto la protezione delle leggi romane –
e la massa popolare (contadini schiavi e semiliberi del Sud e del Centro, pastori
indomiti, spesso veri banditi, del Nord); in complesso, qualche decina di migliaia
di privilegiati contro almeno sei milioni di derelitti. Fra gli uni e gli altri
esisteva, è vero, un terzo ceto: quello degli hispani, abitanti delle
città, funzionari, maestri di scuola, curiali arricchiti, uomini colti
che contribuirono, in qualche caso (i Seneca, Quintiliano, Lucano, Marziale,
gli imperatori Traiano e Adriano ecc.), alla letteratura e al governo dell'Impero.
Essi però non rappresentavano tanto una “classe” sociale,
quanto una “mentalità” urbana, certamente importante nei
secoli “normali”, ma destinata a indebolirsi con la decadenza delle
città. In questo ceto trovò presto la sua base il cristianesimo,
diffuso fin dal sec. I, perseguitato dall'Impero (si ebbero numerosi martiri,
a Mérida, Siviglia, Saragozza, Barcellona ecc.), ma infine tramutato,
per un singolare destino, in erede dello spirito gerarchico e culturale dell'Impero
stesso, continuatore e difensore della lingua latina e delle idee di universalità
e autorità. E di fronte alle invasioni barbariche del sec. V, rotti quasi
del tutto i vincoli politici con Roma, i vescovi finirono con diventare defensores
civitatum (inteso il termine civitas nel doppio significato di città
e di civiltà). Non a caso un vescovo, Isidoro di Siviglia, fu la più
alta figura della Spagna romano-barbarica e il primo ideologo di un effimero
stato nazionale.
Storia: le invasioni barbariche
Nel 409 bande armate di Svevi, Vandali e Alani penetrarono in Spagna, seminando
devastazioni e terrore fra le popolazioni inermi. Poco dopo (412) i Visigoti,
“federati” al servizio di Roma, entrarono dalla Francia meridionale
(loro vero regno finché non ne furono espulsi dai Franchi nel sec. VI)
e stabilirono un'effimera capitale a Barcellona. I sec. V e VI sono convulsi
di lotte, soprattutto fra gli stessi barbari (solo alla fine del sec. VI Leovigildo
riuscì a eliminare gli Svevi, conquistando la loro roccaforte, dalla
Galizia al Tago); ma anche fra Visigoti e Ispanoromani del versante mediterraneo
e fra Visigoti e Impero di Bisanzio, che intanto era riuscito a“liberare”
tutto il Meridione della penisola, da Cartagena all'Algarve, poi portoghese;
e infine fra i Visigoti stessi, non molto numerosi (80-100.000 in tutto) ma
in perenne anarchia, almeno fino a quando non cominciarono a diventare, da capi
di bande armate, grandi possidenti di terre. L'unificazione della penisola si
delineò, finalmente, con Leovigildo e più ancora con Recaredo,
che si convertì al cristianesimo nel 587; e appunto in questo momento,
sant'Isidoro di Siviglia, fiero della propria “vittoria”, esaltò
i Goti come simbolo dell'unità della “nazione ispana”, che
aveva trovato la propria capitale a Toledo, centro anche geografico del Paese,
e conferito autorità ufficiale e legislativa ai vescovi riuniti nei concili
toledani. Ma l'unità politico-religiosa idealizzata e cantata da Isidoro
era molto più teorica che reale. L'oligarchia gota (poche migliaia di
persone in tutto) assommava potere e privilegi, dominando le masse sottomesse,
mentre era ormai quasi del tutto estinto il ceto urbano e commerciale. Solo
la Chiesa resisteva ed elaborava lentamente gli strumenti legislativi (culminanti
nel Liber Iudiciorum del 654) che avrebbero dovuto unificare, parificandoli,
Goti e “Romani”. Ma, legandosi allo Stato, la Chiesa stessa aveva
perso gran parte della sua libertà e iniziato una tradizione che sarebbe
durata a lungo nella storia spagnola. Così il regno visigoto rimase “fondato
sulla sabbia” e si comprende come sia facilmente crollato al violento
impatto con l'invasione musulmana del 711. Ne rimase un vago ricordo, presto
trasfigurato in leggenda.
Storia: la Spagna musulmana
Il trionfo dell'Islam in Spagna fu di una rapidità incredibile. In 5
anni le bande di Ta'riq e Musa, generali del califfato di Damasco, giunsero
da Gibilterra ai Pirenei e oltre. Erano Arabi, Siriani e Marocchini, molto diversi
e divisi fra di loro, nonostante la comune religione, e preoccupati solo di
impadronirsi delle terre confiscate ai vinti Visigoti e ai grandi latifondisti.
Non pensarono neppure di sottomettere gli indomiti pastori-banditi delle montagne
cantabriche e in molti casi vennero a patti con i caudillos locali, limitandosi
a riscuoterne tributi e tasse, senza modificare, quindi, l'antico e ostinato
“cantonalismo” spagnolo. Le lotte fra di loro erano endemiche ma
nel sec. VIII, scampato alla strage della famiglia degli Omayyadi a Damasco,
arrivò in Spagna il principe !Abd ar-Rahman (756-788), il quale, rotti
i legami di dipendenza politica con l'Oriente, gettò le basi di un nuovo
Stato ibero-islamico che doveva durare due secoli e mezzo con momenti di autentico
splendore civile: l'emirato e poi (929-1031) il califfato di Cordova. Neppure
nella sua massima potenza (sec. X), però, lo Stato cordovese riuscì
a unificare sotto la bandiera dell'Islam la penisola. La maggioranza dei suoi
sudditi rimase sempre indigena (cristiani, mozarabi, o rinnegati, muladí,
relitti dell'antica borghesia urbana e artigiana dell'epoca previsigota), capace
di martirio per la fede, come ai tempi di Muhammad I (851-866), e persino di
ribellioni, come quelle di Toledo (853) e di !Omar ibn Hafsun sulle montagne
di Ronda (899-917). Inoltre i mozarabi avevano già una loro lingua romanza
e una certa cultura, specie nel ceto ecclesiastico e monacale (il latino di
Eulogio e di Alvaro di Cordova è uno dei più limpidi del Medioevo
europeo); e anche se l'Islam trionfò sui contadini fino al sud del Duero
e dei Pirenei, in molte città (Saragozza, Toledo, Mérida ecc.)
gli indigeni restarono, in complesso, superiori in ogni senso ai dominatori
musulmani. Si aggiungano le continue discordie fra questi ultimi, aggravate
dalla presenza di mercenari e schiavi, da eresie religiose e rivalità
personali, e si comprenderà come la brillante storia del califfato cordovese
si sia conclusa in piena anarchia, invano frenata, per un momento, dalle vittorie
del più grande condottiero della Spagna islamica, al-Mansur (o Almanzor,
939-1002). Prima ancora della scomparsa “ufficiale” del califfato,
l'unità politica di Al-Andálus (come gli storici musulmani chiamarono
la Spagna, salvando dall'oblio il nome degli scomparsi Vandali) si frazionò
nei cosiddetti “regni di taife” (dall'arabo taifa, banda, fazione
o partito), ciascuno con dinastia e vicende proprie. E se ciò fu utile
per l'arte e la cultura (prima, in certo modo, monopolizzate dalla splendida
Cordova, forse la più colta e fiorente città europea del sec.
X), in ambito politico ne derivarono gravi conseguenze che capovolsero la situazione
precedente. Infatti gli staterelli cristiani che nel frattempo erano sorti nel
Nord poterono passare dalla difensiva all'offensiva e portare avanti la Reconquista
(già stroncata da al-Mansur) fino a Toledo (1085), spesso alleati a re
musulmani contro altre taife (le quali d'altronde si servirono spesso di alleati
cristiani contro altri cristiani: come nel caso del Cid Campeador, visto poi
dalla poesia come l'eroe cristiano per eccellenza). La caduta di Toledo provocò
l'intervento del sultano almoravide del Marocco, Yusuf (1086), che impose la
sua superiorità militare, sorretta dal fanatismo religioso, su diversi
“re” ispano-musulmani, da Siviglia a Valencia, eliminando l'aristocrazia
arabo-andalusa, spegnendo quasi del tutto il rigoglio artistico-culturale e
rendendo la vita difficile ai sudditi cristiani ed ebrei, molti dei quali si
rifugiarono presso i principi cristiani (fatto di rilievo in sede culturale).
Ma presto anche l'impero almoravide si frantumò e venne sopraffatto da
un'altra ondata di berberi fanatici, gli Almohadi (in Spagna dal 1145 al 1223);
questi tuttavia non poterono annientare gli Stati cristiani ormai forti (Castiglia,
Aragona, Portogallo) e subirono una sconfitta decisiva alle Navas di Tolosa
(1212). Conseguenza diretta di questa fu la conquista dell'Andalusia da parte
del re castigliano Ferdinando III (Cordova, 1236; Siviglia, 1248); a questo
punto il dominio musulmano della Spagna poté considerarsi finito, anche
se il piccolo regno di Granada sopravvisse ancora fino al 1492, in una situazione
di vassallaggio nei confronti dell'ormai dominante Castiglia.
Storia: gli stati cristiani del Nord fino al XIII secolo
Parallelamente alla storia di Al-Andálus, e in stretti rapporti con essa,
si sviluppa quella degli Stati cristiani del Nord. Per un paradosso storico,
i montanari-predoni della Cordigliera Cantabrica e dei Pirenei, che tanta resistenza
avevano opposto ai Romani prima e poi alla prima Spagna cristiana, finirono
col diventare i difensori della fede contro l'Islam e i promotori della riscossa
nazionale. Il primo regno fu quello delle Asturie, col semi-leggendario Pelagio
I (718-737), e capitale prima a Cangas de Onis e più tardi (inizi sec.
IX) a Oviedo. Ma è chiaro che un forte appoggio venne dai Franchi, preoccupati
del pericolo musulmano sulla loro frontiera meridionale; per questo Carlo Magno
realizzò una spedizione nel 778 che non poté conquistare Saragozza,
ma rafforzò un secondo staterello, quello di Pamplona (con dinastia propria,
di Iñigo Arista, dalla metà del sec. IX), e portò poi alla
creazione della Marca Ispanica, forte caposaldo militare, con una “contea”
indigena, quella di Barcellona, a partire da Wifredo il Velloso (874-898). Altre
piccole contee pirenaiche, a cominciare da quella d'Aragona (primo conte conosciuto
un Auriolus morto verso l'809), nacquero per l'appoggio dei Franchi, salvo poi
rendersene indipendenti di fatto. Nel sec. X il regno asturiano si era potuto
estendere, pressoché indisturbato, verso ovest (Galizia) e a sudest (con
nuova capitale a León, 914), raggiungendo la valle del Duero e favorendone
i “ripopolatori” con forti privilegi “democratici”:
da qui doveva poi nascere la Castiglia (“regione dei castelli”),
marca di frontiera destinata dalla sua stessa peculiare situazione, oltre che
dallo spirito fiero e dinamico dei suoi abitanti cantabri, a diventare indipendente
e a prendere l'iniziativa della Reconquista. L'apogeo politico-militare del
califfato di Cordova (sec. X) giunse troppo tardi per annientare quei regni
e vane furono anche, in definitiva, le grandi vittorie di al-Mansur (Zamora,
Simancas, Barcellona, 985; Coimbra, León, 988; Santiago, la “città
santa”, 997; Burgos, 1000). Il crollo del califfato, l'anarchia delle
taife e il nuovo, generale slancio dell'intera Europa cristiana dopo il Mille,
capovolsero la situazione. Alfonso VI di Castiglia, aiutato da “crociati”
franchi (uno dei quali fu poi suo genero e primo “conte di Portogallo”),
scese fino al cuore della penisola e conquistò Toledo (1085); Alfonso
I d'Aragona conquistò finalmente Saragozza (1118), facendone la capitale
del secondo regno peninsulare, reso poi più potente dall'unione con la
mediterranea Catalogna; e intanto la “strada di San Giacomo” (camino
de Santiago) portò fino in Galizia migliaia di pellegrini, monaci, commercianti
e nobili europei. Nacquero i grandi monasteri cluniacensi (sec. XI) e cistercensi
(XII) e con essi i nuovi studi, l'arte romanica, la storia, l'epica, la lirica
cortese, i codici in cui il diritto romano si sovrappose ai costumi barbari.
Da Alfonso VI a Ferdinando III, soprattutto, rifulse il ruolo determinante della
Castiglia, Paese “rivoluzionario”, senza classi sociali chiuse,
temerario e avventuriero (se ne resero conto, più tardi, l'Europa e specialmente
l'America), conquistatore e “ripopolatore” del centro e del meridione
della penisola, in cui impose anche la propria lingua, più “moderna”,
più chiara e dinamica delle altre lingue, nobili e arcaiche. Ovviamente,
la rapidità di questa fase della Reconquista (sec. XIII) portò
con sé un gravissimo problema: l'assimilazione di masse ingenti di popolazione
attiva, commercianti, artigiani, agricoltori, mudéjares, ebrei e moreschi,
diversi per la religione, la lingua, l'economia, i costumi e in genere di cultura
superiore a quella dei conquistatori. Codesto fatto macroscopico si risolse
in un vantaggio, sul piano culturale e linguistico (l'arte mudéjar si
diffuse nella penisola; il castigliano si arricchì di migliaia di vocaboli
e di calchi espressivi arabi ecc.), ma su quello politico e socioeconomico non
poteva non comportare difficoltà e ostacoli d'ogni genere, come i secoli
seguenti chiaramente dimostrarono.
Storia: dalla conquista di Cadice (1262) ai re cattolici
Terminata con la conquista di Cádice (1262) la fase “aurea”
della Reconquista, questa entrò in una lunga stasi, dovuta a un complesso
di cause. Anzitutto non era affatto escluso il pericolo di un'ennesima invasione
musulmana e la Castiglia, priva di una marina propria, dovette “montare
la guardia” sullo stretto di Gibilterra, servendosi soprattutto della
flotta genovese (né mancarono gli scontri armati, specie all'epoca di
Alfonso XI, che respinse l'ultimo tentativo marocchino nella battaglia del Salado,
1340, e quattro anni dopo conquistò Algeciras con l'aiuto navale di aragonesi
e genovesi). In secondo luogo, le ambizioni “imperialistiche”, nate
dalle vittorie sui Mori, dovevano mettere la Castiglia in urto con gli altri
due più importanti regni peninsulari: l'Aragona (forte e ricca per le
conquiste e la politica di Giacomo I nel Mediterraneo e l'attività commerciale
della marina catalana) e il Portogallo, tenacissimo nel rifiutare la supremazia
castigliana e vincitore ad Aljubarrota (1385). Ma più grave fu la crisi
interna: distribuendo le fertili terre meridionali tolte ai Mori fra gli ordini
militari (Calatrava, Alcántara, Santiago) e i cavalieri castigliani collaboratori
della conquista, i re di Castiglia crearono potenti e indocili feudatari, incapaci
d'altra parte di far produrre i loro latifondi, spesso in lotta con i contadini
moreschi e facili debitori di denaro nei confronti dei banchieri ebrei (a cui,
del resto, gli stessi re ricorrevano continuamente, mancando del tutto di idee
in materia finanziaria). Ne derivarono la decadenza dell'agricoltura andalusa,
anche per la mancanza di navi che ne trasportassero i prodotti, l'affermazione
della medievale pastorizia – con facile vendita della lana a fiamminghi
e fiorentini, e conseguente potenza della Mesta (cartello dei produttori di
lana, che arrivò a essere un vero Stato entro lo Stato) – e infine
carestie, sommosse e odio antiebreo. Di qui alle guerre civili non c'era che
un passo e infatti, incominciate all'epoca di Alfonso X, troppo “dotto”
forse per essere un buon amministratore, esse continuarono a lungo con momenti
ed episodi tragici, come al tempo di Pietro I il Crudele (1350-1369), assassinato
dal fratellastro Enrico di Trastámara. Si aggiungano calamità
naturali, come la terribile peste nera del 1348 (con successive ondate nel 1362,
1371, 1375), che devastarono il Paese più ancora delle guerre civili.
Enrico di Trastámara, il fratricida, e i suoi successori, sempre più
deboli e incerti, regnarono per un secolo su un Paese sconvolto dalla fame,
dai pogrom antiebraici (feroce quello di Siviglia nel 1391), dalle rivolte dei
contadini, dei borghesi, dei grandi signori, invano contrastate da qualche raro
politico illuminato, come don Álvaro de Luna, finito sul patibolo nel
1453. L'ultimo dei Trastámara, Enrico IV (1454-1474), tentò di
difendere i conversos e di porre fine all'insubordinazione della grande nobiltà,
ma fu infine deposto da quest'ultima, che lo sostituì con la sorella
di lui, Isabella, maritata nel 1469 al re d'Aragona, Ferdinando. Con essi ebbe
inizio un'epoca interamente nuova.
Storia: i re cattolici
La tendenza all'unificazione dei regni peninsulari veniva di molto lontano,
almeno da quando rinacque nelle Asturie del sec. VIII il mito isidoriano della
“monarchia gota” (manifesto anche nell'adozione di nomi di origine
germanica – Alfonso, Ferdinando ecc. – da parte dei re peninsulari).
Alla fine del sec. XV essa fu resa possibile non solo da una comprensibile reazione
al caos in cui era caduta la Castiglia, ma anche dal diffondersi degli ideali
umanistici (favoriti dai deboli ma colti Trastámara) e dal fatto che
sul trono di Aragona sedeva, dal “compromesso” dinastico di Caspe
(1412), una dinastia di origine castigliana. Senza dimenticare, beninteso, la
tendenza alla formazione di forti unità nazionali, palese nella coeva
storia europea. È noto che il matrimonio dei futuri re cattolici (così
titolati dal papa dopo la conquista di Granada avvenuta nel 1492) non portò
alla fusione dei rispettivi Stati. Al contrario, questi conservarono frontiere,
assemblee (Cortes) e governi distinti, anche quando, dopo la morte del genero
Filippo di Asburgo, Ferdinando fu reggente del regno di Castiglia (1506-16).
Ma se lo spirito di Isabella è avvertibile nelle vicende interne della
Castiglia – ristabilimento dell'ordine, con mano dura; avvio a una riforma
religiosa; nascita dello “spirito di crociata”, che portò
alla conquista del regno moro di Granada in undici anni di guerra (1481-92),
all'introduzione dell'Inquisizione e all'espulsione degli ebrei –, spetta
in primo luogo al “politico” Ferdinando, non a caso ammirato dal
Machiavelli, il merito di aver fatto della Spagna una potenza di rango internazionale,
con la conquista dell'Italia meridionale e della Navarra, le spedizioni d'Africa
(1509-11) e le alleanze con la casa di Borgogna e la casa d'Austria, che, rovesciando
la politica filofrancese della Castiglia medievale, dovevano avere gravi conseguenze
per la Spagna futura. Va anche notato che, mentre in Aragona Ferdinando rispettò,
in genere, la tradizionale, per quanto relativa, “democrazia”, in
Castiglia Isabella “mise a posto” la turbolenta aristocrazia, ma
non le tolse la sua privilegiata posizione politica e territoriale (latifondi,
maggioraschi ecc.) e rispettò anche tutti i privilegi della Mesta, per
cui, in definitiva, la crisi dell'agricoltura castigliana non fece che aumentare.
Senza contare il crollo dei commerci e delle industrie (nonostante provvedimenti
protezionistici) e il caos finanziario dopo l'espulsione degli ebrei (1492).
E quando la sorte elargì alla Castiglia di Isabella il dono inaudito
dell'America, con la favolosa quantità dei suoi metalli preziosi, questi
non risolsero affatto la crisi economica, ma anzi, paradossalmente, l'aggravarono.
L'epoca dei re cattolici fu certamente importante per la Spagna, in quanto vero
“giro di ruota” dal Medioevo all'età moderna. Ma non tutto
fu splendido in essa, come parve alla storiografia nazionalista e agiografica.
L'intolleranza e lo “spirito di crociata”, da un lato, e la mancanza
di una politica economica, dall'altro, dovevano pesare duramente sul futuro
del Paese.
Storia: Carlo V
È noto come una serie di circostanze fortuite (morti, matrimoni reali,
follia di Giovanna, erede dei re cattolici) finisse col destinare il maggiore
impero della storia europea nelle mani del giovane Carlo d'Asburgo, nato a Gand
nel 1500, educato in ambiente borgognone-fiammingo, signore assoluto della Spagna
– che non conosceva nemmeno – a 16 anni e, come se non bastasse,
imperatore del Sacro Romano Impero a 19, quale successore del nonno paterno
Massimiliano. Per 40 anni, fino a quando cioè non lasciò le sue
innumerevoli corone per cercare la pace nel monastero di Yuste, la storia di
Carlo V (Carlo I di Spagna) è quella di un momento drammatico dell'Europa
– Riforma e guerre di religione, duello all'ultimo sangue con la Francia
di Francesco I, minaccia turca nei Balcani e nel Mediterraneo, guerre in Italia
persino col papa (sacco di Roma del 1527) – e insieme della Spagna e dell'America.
Il suo regno spagnolo cominciò con una violenta rivolta aristocratica
contro i ministri fiamminghi (Comuneros di Castiglia, sconfitti a Villalar nel
1521 e ferocemente castigati); continuò tra violente polemiche teologico-politiche
(pro e contro gli illuminati e gli erasmisti, pro e contro i metodi di colonizzazione
in America, pro e contro il Concilio riformatore) e fu caratterizzato sempre
da guerre esterne – in Germania, in Italia, nei Balcani, nel Mediterraneo,
in Africa – e da un'affannosa ricerca di denaro liquido presso i banchieri
italiani e tedeschi, nelle cui mani finivano i metalli preziosi d'America prima
ancora di essere estratti. Nonostante l'“ispanizzazione” morale
di Carlo V (dimostrata, alla fine, dal suo ascetico desengaño di Yuste),
è chiaro che l'immenso salasso di uomini e di denaro richiesto da tante
e così disparate imprese non poteva non ritorcersi, in definitiva, contro
la Spagna, sempre sull'orlo della bancarotta economica e, cosa ancora più
grave, radicalmente incapace di comprendere il mondo capitalista e borghese.
La politica europea di Carlo V, finita nel fallimento, si risolse fatalmente
in un aggravarsi della crisi economica e nell'accentuato distacco dell'“idealismo”
castigliano dal “realismo” etico-politico dell'Europa moderna.
Storia: i successori di Carlo V
Con i due primi successori austriaci di Carlo V, il figlio Filippo II (1556-1598)
e Filippo III (1598-1621) – accentratore pedante e testardo il primo,
imbelle il secondo e succube di rapaci ministri (come Francisco Gómez
Lerma) –, la Spagna fu costretta a seguire la strada aperta dai re cattolici
e da Carlo V, con fatale involuzione progressiva. Prigioniera del suo stesso
integralismo religioso, divenuta quasi un nuovo “califfato”, si
trovò obbligata a un'affannosa e interminabile lotta su un duplice fronte:
l'ortodossia politico-religiosa all'interno, la supremazia europea (e mondiale)
all'estero. L'Inquisizione – vero tribunale per la difesa dello Stato
– non esitò a imprigionare e processare persino personalità
religiose di primo piano, e di provata “innocenza”, come il cardinale-primate
B. Carranza e il poeta-teologo Luis de León; mentre l'implacabile discriminazione
fra “cristiani vecchi” (i soli di “sangue puro”) e “nuovi”,
discendenti di ebrei (marranos) e Mori, e solo per questo sospetti, ancorché
battezzati, seminava odi e ingiustizie senza fine, paralizzando insieme l'attività
intellettuale e quelle commerciale e finanziaria. Sul piano internazionale la
potenza spagnola ebbe soprattutto due nemici implacabili: l'Inghilterra e la
Francia. L'odio personale e religioso che opponeva Filippo II a Elisabetta (l'“eretica”,
l'assassina della Stuart) era aggravato da consistenti dissensi politici: le
piraterie inglesi contro l'America spagnola, la conquista spagnola del Portogallo,
secolare alleato dell'Inghilterra (1580), e soprattutto l'intervento inglese
nella questione dei Paesi Bassi. L'ostinata volontà di Filippo II di
conservare a ogni costo questa parte dell'eredità di Carlo V, preservandola
insieme dall'“eresia”, costò alla Spagna decenni di guerra,
perdite immense d'uomini e di denaro, violenze e ingiustizie senza numero (basti
ricordare il “tribunale del sangue” del duca d'Alba a Bruxelles)
e determinò alla fine la nascita di un altro nemico irriducibile: l'Olanda.
In definitiva, ad essa si dovettero anche il tremendo disastro dell'Invencible
Armada (1588) e il predominio inglese sulle rotte oceaniche; il disastro terrestre
di Rocroi (1643), seguito da quello diplomatico di Vestfalia, e infine la Pace
dei Pirenei (1659), che consacrava insieme la superiorità della Francia
di Luigi XIV e la decadenza della Spagna dal rango di prima potenza mondiale.
L'immane sforzo per mantenere un ruolo politico molto superiore alle sue reali
possibilità demografiche e finanziarie costò anche alla Spagna,
com'era da attendersi, la rovina economica. Mentre la popolazione, salassata
dalle guerre continue e dall'emigrazione in America, toccava, alla fine del
sec. XVII, un minimo di sei milioni, la galoppante inflazione causata dall'afflusso
dei metalli preziosi americani, le deficienze congenite del sistema agrario
(che costrinsero a importare cereali per far fronte alle carestie e alla fame
di buona parte della popolazione), il sempre più scarso rendimento dell'industria
incapace di sostenere la concorrenza dei prodotti francesi, italiani e fiamminghi,
migliori e meno cari, la bancarotta del commercio laniero rovinato dal monopolio
della Mesta, la mancanza di capitali e di iniziative (persino la tratta degli
schiavi venne lasciata nelle mani di appaltatori stranieri), l'inettitudine
di una burocrazia statale sempre più numerosa, lenta e inutile, anche
per il sistema di vendita allora in voga in Europa (ma che in Spagna durò
più a lungo) delle cariche pubbliche, e infine il caos del sistema fiscale,
che gravava soprattutto sui meno abbienti, costituiscono gli aspetti salienti
di un grande disastro economico. Nel 1609, l'espulsione di trecentomila moriscos,
abili agricoltori e artigiani – estrema conseguenza dell'isabellino “spirito
di crociata” e dell'integralismo elevato a sistema di governo –
rappresentò un altro colpo mortale per l'agonizzante economia. Con i
due ultimi austriaci – l'imbelle Filippo IV (1621-65), che lasciò
governare il conte-duca d'Olivares, monomaniaco assertore di una potenza ormai
illusoria, e Carlo II (1665-1700), facile preda di fattucchiere e di scongiuratori
di demoni – si tocca veramente il fondo della decadenza; perduto il Portogallo,
l'interno stesso del Paese divenne teatro di rivolte, secessioni e persino di
un colpo di stato (Giovanni Giuseppe d'Austria), che naturalmente non bastò
a salvarlo.
Storia: i Borbone e Napoleone
All'inizio del sec. XVIII, ormai incapace di governarsi da sé, la Spagna
fu disputata dalle grandi potenze europee – la Francia di Luigi XIV contro
l'Austria, l'Inghilterra e l'Olanda alleate – in una lunga e sanguinosa
guerra di successione (1702-13). Risultato della quale fu l'avvento sul trono
spagnolo del francese Filippo V di Borbone (1700-1746); la politica spagnola
tornò a essere sostanzialmente filofrancese, almeno fino al 1789, in
una posizione subalterna regolata dal “patto di famiglia” (1733,
rinnovato nel 1743 e 1761) che la costrinse fra l'altro a ripetute guerre con
l'Inghilterra. All'interno, però, l'azione della nuova monarchia si fece
ben presto sentire con risultati positivamente sostanziali all'epoca di Ferdinando
VI (1746-59) e in particolare di Carlo III (1759-88), il più “illuminato”
dei Borbone e senza dubbio il miglior sovrano che abbia mai avuto la Spagna.
Avvalendosi di collaboratori generalmente onesti e bene intenzionati, da prima
stranieri (francesi, poi italiani, come G. Alberoni, G. Grimaldi, L. Squillace)
e infine spagnoli (Ensenada, Aranda, Campomanes, Floridablanca), i Borbone iniziarono
una serie di “riforme” dall'alto, intese da prima al riordino dell'amministrazione
statale – sarebbe stato impossibile governare un Paese moderno mantenendo
l'arcaica e caotica amministrazione austriaca – e presto anche al ricupero
economico e culturale. Ancorché ostacolata e rallentata in tutti i modi
dalla resistenza delle forze conservatrici (la Chiesa, l'Inquisizione, l'alta
aristocrazia, che continuava a possedere la maggior parte delle terre, pur rappresentando
meno di un decimo della popolazione), l'azione riformatrice conseguì
indubitabili successi: costruzione di strade e porti, inizio di una colonizzazione
interna, rinascita dell'agricoltura (con nuovi metodi e impulso di scuole “tecniche”),
rilancio delle province e delle regioni periferiche (cominciò nella seconda
metà del secolo il decollo dell'industriosa Catalogna), rinnovamento
dell'istruzione superiore (specie dopo l'espulsione dei gesuiti, 1767), fine
delle discriminazioni razziali con l'abolizione del “disonore legale”
gravante sugli artigiani, creazione di centri nuovi e attivi come le Società
Economiche degli Amici del Paese, repressione del banditismo e del vagabondaggio,
fiscalizzazione più equa, fine dei privilegi esorbitanti della Mesta
e dei grandi proprietari ecc. Alla fine del secolo, la popolazione era salita
da 7 a 10 milioni e mezzo, e il numero degli aristocratici e degli ecclesiastici
era più che dimezzato. Notevoli successi si ottennero, in senso analogo,
anche nei vicereami americani (portati da 2 a 4 e potenziati economicamente
e culturalmente) col risultato però di far nascere anche le prime idee
(e moti) d'indipendenza, che dovevano trionfare all'inizio del sec. XIX. La
promettente rinascita, così vasta e palese al tempo di Carlo III, doveva
tuttavia subire un netto arresto col figlio e successore di lui, Carlo IV (1788-1808),
sia per l'inettitudine del sovrano, che lasciò governare Godoy, un ministro
venale e di torbide origini, sia anche e soprattutto perché la Spagna,
legata dal “patto di famiglia”, si trovò fatalmente coinvolta
nel grande dramma europeo di fine secolo: la Rivoluzione francese del 1789 e
le conseguenti guerre del Consolato e dell'Impero. La Pace di Basilea (1795),
dopo una disastrosa guerra con la Francia repubblicana, e soprattutto i due
patti di San Ildefonso (1796 e 1800) con cui la Spagna si legò di nuovo
alla Francia, le costarono la perdita di alcune colonie americane, la distruzione
pressoché totale della flotta a Trafalgar (1805) – e quindi, poco
più tardi, la perdita dell'America – e l'assoggettamento a Napoleone,
con gravissime conseguenze. All'inizio del 1808, con la scusa di combattere
il Portogallo ribelle al “blocco continentale”, Napoleone occupò
militarmente la Spagna “alleata” e facendo leva sull'ostilità
esistente fra l'inetto Carlo IV e il figlio di lui, il vile Ferdinando VII,
depose (Colloquio di Bayonne) i due Borbone e li sostituì col proprio
fratello Giuseppe, “trasferito” da Napoli. Pensava con questo di
aver risolto in definitiva la “questione spagnola”; ma si sbagliava
perché una violenta insurrezione popolare, seguita da cinque anni (1808-13)
di feroce guerriglia (un termine spagnolo che doveva diventare universale) lo
costrinse a impegnarsi a fondo nella penisola, rivelandosi, alla fine, una delle
cause decisive della sua sconfitta. Non meno gravi, però, furono per
la Spagna le conseguenze di quella che gli storici definirono “guerra
dell'indipendenza”, ma che in realtà fu una guerra civile, giacché
molti spagnoli presero parte a essa dalla parte dei francesi, convinti in buona
fede (da veri “illuminati”, quali erano, e credenti negli “immortali
principi dell'89”) che fosse l'inizio di una “nuova storia”,
finalmente moderna, per il loro tribolato Paese. La loro sconfitta segnò
quindi il trionfo della reazione più oscurantista e inquisitoriale e
l'inizio di un lungo dramma che esplose nella guerra civile del 1936-39. La
convulsa storia moderna e contemporanea della Spagna si è svolta, dunque,
sotto il segno nefasto della guerra civile, la “guerra di Caino”,
ha detto M. de Unamuno; e che questa tragica peculiarità abbia contribuito
a rendere più alti, per dir così, i Pirenei, “distinguendo”
la Spagna dal resto d'Europa quasi quanto nell'alto Medioevo, è confermato
dal fatto che le massime “crisi” europee (1848, 1870, 1914-18, 1939-45),
almeno in apparenza, non l'hanno riguardata, come se si trovasse in un altro
continente, o vi sopravvivessero inspiegabilmente gli inestinguibili odi religioso-razziali
dei remoti secoli della Reconquista.
Storia: la Restaurazione e le guerre carliste
Dopo la caduta di Napoleone, la Restaurazione assolutista, impersonata in Spagna
da Ferdinando VII, si prolungò per un ventennio, fino alla morte del
re (1833), con una parentesi di tre anni (1820-23) nel corso dei quali una rivolta
di militari liberali e massoni, guidata da Riego, lo costrinse a ripristinare
la Costituzione di Cádice (votata nel 1812, ma soppressa dal re nel 1814
al momento del suo rientro in Spagna), che era stata esemplata su quella francese
del 1791. Com'è noto, questo triennio costituzionale finì drammaticamente,
a opera di un esercito francese (i “centomila figli di San Luigi”
del duca d'Angoulême), mandato dalla Santa Alleanza a ristabilire l'ordine
(battaglia del Trocadero, 1823). D'altronde il triennio stesso, caratterizzato
da un tremendo caos politico, aveva dimostrato l'immaturità democratica
degli spagnoli e in particolare l'indifferenza delle masse contadine e analfabete
nei confronti delle “libertà” sancite dalla Costituzione.
Tiranno ottuso (anche se fornito di una certa grossolana furberia), Ferdinando
VII governò dispoticamente, fidandosi più della sua camarilla
che dei pavidi ministri e odiando soprattutto gli intellettuali e la cultura
in genere. Si dovette chiaramente alla sua cecità politica la perdita
delle colonie d'America, negli anni Venti. Dopo la fine del triennio costituzionale,
il suo spirito di rancore e di vendetta contro i liberali portò a una
fase di vero “terrore bianco”. Alla fine, però (a partire
dal 1828), il rigore si andò allentando e ministri più illuminati
(F. L. Ballesteros, F. Cea Bermúdez) poterono dare qualche impulso al
progresso economico del semirovinato Paese. Ma alla morte del re, che lasciava
erede la figlia Isabella, di tre anni, sotto la reggenza della madre Maria Cristina
di Borbone-Napoli, il fratello di lui Don Carlos – riconosciuto come Carlo
V da una minoranza di reazionari fanatici – scatenò la prima delle
guerre carliste (1834-39) che per decenni dovevano insanguinare il Paese. Di
fronte al grave pericolo, la reggente dovette appoggiarsi ai liberali ed emanare
un decreto di amnistia che consentì il ritorno in Spagna di decine di
migliaia di emigrati politici del 1808 e del 1823. Nata in condizioni così
precarie, la seconda democrazia spagnola non poteva non avere vita languida.
La feroce guerra civile, oltre a costare molto sangue e denaro, causò
una più grave conseguenza: il predominio politico dei generali. Il quarantennio
seguente è infatti dominato dai golpes o pronunciamientos di questi,
e in particolare di quattro: B. Espartero, R. M. Narváez, J. Prim e L.
O'Donnell, diversi come “coloritura” politica (Espartero, per esempio,
si appoggiò ai progressisti; Narváez, invece, ai conservatori,
e O'Donnell capeggiò un babelico partito chiamato Unión Liberal),
ma simili nei metodi di governo. Infine, nel 1868, una rivoluzione cacciò
dal trono l'inetta Isabella II, a opera del generale Prim. Questi chiamò
a sostituirla Amedeo di Savoia, figlio di Vittorio Emanuele II, ma venne assassinato
da sicari borbonici nello stesso momento in cui arrivava in Spagna il nuovo
re (1870). Amedeo I regnò poco più di due anni, sempre fra crisi
e disordini, e alla sua abdicazione (febbraio 1873) venne proclamata la Repubblica,
mentre la guerra civile imperversava un'altra volta, a opera di carlisti, alfonsisti,
cantonalisti ecc. In pochi mesi di vita la Repubblica ebbe 4 presidenti: E.
Figueras, F. Pi y Margall, N. Salmerón e E. Castelar, e il caos fu completo.
Il 29 dicembre 1874, un ennesimo generale, A. Martínez de Campos, si
“pronunciava” a Sagunto, proclamando la restaurazione monarchica
nella persona di Alfonso XII, figlio della deposta Isabella II.
Storia: da Alfonso XII alla dittatura di Primo de Rivera
Il periodo 1874-98 portò finalmente alla Spagna la tranquillità
politica, grazie a una stabile struttura democratico-parlamentare, e un innegabile
progresso socioeconomico. La monarchia costituzionale (Alfonso XII, e dopo la
morte di lui, nel 1885, la reggente Maria Cristina d'Asburgo in nome del figlio
Alfonso XIII) e illuminati statisti “civili”, quali A. Cánovas
del Castillo e P. M. Sagasta, capi dei due partiti che si alternarono pacificamente
al potere (conservatori e liberali, vicini al modello inglese), resero effettive
le libertà fondamentali di coscienza, associazione, stampa e insegnamento,
e le conquiste civili, come la giuria popolare e il suffragio universale. Il
consolidarsi di una borghesia attiva – specialmente in Catalogna e nei
Paesi Baschi, dove si moltiplicarono le imprese commerciali, le industrie e
le banche –, le opere pubbliche, in particolare le ferrovie (sia pure
largamente finanziate da capitali esteri), gli sviluppi dell'agricoltura, permisero
di superare, almeno in parte, il forte distacco fra la Spagna e il resto d'Europa.
La popolazione aumentò (da 15 a 20 milioni in mezzo secolo) e si alzò
il livello di vita. Ma c'era anche un rovescio della medaglia: scarsa moralità
politica (elezioni truccate, invadenza politica dei grandi proprietari-elettori,
clientelismi, corruzione nei governi locali, scissioni nell'interno dei partiti,
che screditarono, infine, il regime democratico), squilibrio sempre più
accentuato fra l'aumento della popolazione e quello della produzione agricola
e industriale, bilancia commerciale quasi sempre in deficit, sviluppo dei movimenti
sociali (quello anarchico prima e quello socialista) e tendenze autonomistiche
delle regioni più ricche (Catalogna e Paesi Baschi), represse invano
dal rigido centralismo di Madrid. Ma il fattore più deleterio per le
sorti della fragile democrazia spagnola fu la lunga questione di Cuba, che,
dopo un'interminabile guerriglia nella colonia, sfociò nella guerra del
1898 contro gli Stati Uniti, perduta in poche settimane, e nel forzato abbandono
degli ultimi resti dell'immenso impero di Carlo V. Ne derivò un grave
danno economico, ma ben più grave fu quello morale. Il regno di Alfonso
XIII (1902-31) vide, da una parte, la progressiva decadenza del regime parlamentare,
nonostante l'onestà di uomini politici come A. Maura, J. Canalejas Mendaz
e E. Dato (i due ultimi morti assassinati), e dall'altra l'acutizzarsi delle
tensioni politiche e sociali, con scioperi, sommosse e dure repressioni (“settimana
tragica” di Barcellona, 1909). Continue crisi di governo (trentatré
in vent'anni, 1902-23), per lo più inutili e incomprensibili per le masse,
alimentando la sfiducia nella democrazia parlamentare, indussero il re a intervenire
sempre più pesantemente in politica, alle spalle dei propri ministri
e con l'appoggio dell'esercito. Immemori della lezione di Cuba, i generali cercarono
prestigio e promozioni in un'altra infelice guerra coloniale, nel Marocco stavolta,
e complice il re incapparono, dopo un lungo salasso di uomini e di denaro, nella
disfatta di Anoual (1921). Questa, coincidendo con la grave crisi economica
che seguì la prima guerra mondiale (durante la quale la Spagna, grazie
alla sua neutralità, aveva realizzato pingui guadagni commerciando con
tutti i belligeranti), portò al colmo l'esasperazione popolare. Unanimi
per la prima (e forse ultima) volta, Parlamento e Paese reclamarono la punizione
dei responsabili, ai quali non rimase che l'estremo ricorso, tante volte sperimentato
con successo nel sec. XIX: il colpo di stato e la dittatura militare, impersonata
dal generale M. Primo de Rivera (1923-30). A suo merito furono, indubbiamente,
il ristabilimento dell'ordine pubblico e una notevole ripresa economica, grazie
anche a un vasto programma di opere pubbliche, elettrificazione, produzione
di ferro e acciaio. Ma il paternalismo autoritario della dittatura non risolse
alcun problema veramente importante del Paese: si limitò a congelarli
tutti, dandoli per risolti. Minato anche dall'opposizione degli intellettuali
(come Unamuno), il fragile regime andò in pezzi al primo urto contro
una più forte realtà: la crisi economica mondiale del 1930. E
solo poco più di un anno dopo la caduta del dittatore, il 14 aprile 1931,
semplici elezioni municipali facevano crollare anche la monarchia.
Storia: le premesse della guerra civile
Nata pacificamente, fra le speranze della maggioranza della nazione, la Seconda
Repubblica finì, com'è noto, nella tragedia della guerra civile
del 1936-39, prologo della seconda guerra mondiale e della dittatura franchista.
Per comprendere sul piano storico questo ennesimo fallimento delle “sinistre”
spagnole non basta considerare che i propositi riformatori dei politici repubblicani
– teoricamente impeccabili, come li precisò la Costituzione del
1931, esemplata su quella tedesca di Weimar – dovevano necessariamente
cozzare contro l'opposizione dei ceti privilegiati (latifondisti, grandi industriali
e finanzieri), i quali – soprattutto dopo le rivoluzioni asturiana e catalana
dell'ottobre 1934 – cercarono anche appoggi internazionali ed ebbero contatti
diretti col fascismo italiano, da cui nacque la Falange spagnola di J. A. Primo
de Rivera, figlio del deposto dittatore (gruppo peraltro che rimase sempre marginale
e di minoranza). Né basta ricordare l'antica vocazione “golpista”
dei generali, che diede il via alla guerra civile il 18 luglio del 1936. Nel
biennio chiave di fondazione della Repubblica (1931-33), prima del rafforzamento
delle opposizioni di destra (monarchici, carlisti, alta borghesia) e di sinistra
(anarchici, comunisti), imprudenze ed errori gravi sono imputabili alla coalizione
governativa di centrosinistra (radicali di M. Azaña e socialisti di varie
e troppe correnti), che promise molto più di quello che poteva fare,
improvvisò riforme eccessivamente ambiziose senza poterle perciò
attuare a fondo, offese i sentimenti religiosi della maggioranza con un anticlericalismo
rabbioso e finì con lo scontentare tutti – a cominciare dalla piccola
borghesia che l'aveva appoggiata nel 1931 –, esasperando i dissensi e
gli opposti estremismi. Si spiega quindi la sbandata a destra delle elezioni
del 1933, che portarono al potere la CEDA (partito democristiano di J. M. Gil
Robles, sostanzialmente conservatore), con altre formazioni di centrodestra
non estremiste. A questo punto un consolidamento della debole democrazia sarebbe
stato, forse, ancora possibile se le opposizioni non si fossero lanciate ad
avventure folli, come le insurrezioni anarchico-separatiste delle Asturie e
di Catalogna. Terrorizzati dagli eccessi forsennati, le estreme destre e alcuni
generali cominciarono a pensare a una controrivoluzione armata, mentre le estreme
sinistre, momentaneamente sconfitte, si armavano a loro volta per la rivincita.
Storia: la guerra civile
Prima ancora delle elezioni del febbraio 1936, che portarono alla vittoria del
Fronte Popolare (sulla base peraltro di una precedente legge maggioritaria che
attribuiva l'80% dei seggi alla lista che avesse avuto più del 50% dei
voti), destre e sinistre avevano già iniziato la loro guerra civile.
Le vicende della guerra (18 luglio 1936-1º aprile 1939) sono ben note.
I ribelli, guidati dai generali F. Franco, E. Mola, J. Sanjurjo e M. Goded (i
tre ultimi morti presto tragicamente), conquistarono subito le regioni settentrionali,
fino a Saragozza e alla Sierra del centro, esclusi però i Paesi Baschi
e la Catalogna, che divennero repubbliche autonome confederate con Madrid. Contemporaneamente,
truppe marocchine e del “Tercio” si impadronivano di Siviglia e
di altre città andaluse, con l'appoggio aeronavale dell'Italia fascista
(la quale successivamente mandò a Franco molto materiale bellico e fino
a 120.000 soldati, mentre la Germania nazista contribuiva con una divisione
aerea e fino a 30.000 “specialisti”). La ribellione fallì
invece a Madrid e a Barcellona, che rimasero ai repubblicani, con le regioni
del Centro, fino all'Estremadura, e dell'Est. Forze popolari più o meno
organizzate (sebbene sempre minate da dissidi fra anarchici e comunisti) e più
tardi (da ottobre-novembre) “brigate internazionali” antifasciste,
fino a un massimo di 40.000 uomini, lottarono a fianco delle truppe governative,
senza poter salvare l'Estremadura e Toledo, ma fermando però i franchisti
alle porte di Madrid, che resistette eroicamente fino alla fine. L'Unione Sovietica
fornì aiuti di aerei, carri armati e specialisti, limitati però
dalle difficoltà di trasporto o da intralci internazionali. Davanti a
tali massicci interventi, la Società delle Nazioni si dimostrò
praticamente impotente. Si limitò a creare un quasi umoristico Comitato
per il non-intervento, di cui facevano parte la Germania e l'Italia nel tempo
stesso in cui praticavano il più spudorato intervento. Sul piano militare,
i fatti principali furono: nel 1937 le conquiste franchiste di Málaga
e dei Paesi Baschi (con conseguente annullamento del fronte del Nord), le battaglie
di Guadalajara e di Brunete, che rafforzarono la difesa di Madrid; nel 1938
la battaglia di Teruel, l'avanzata franchista fino al Mediterraneo, che tagliò
in due la zona repubblicana, e la disperata battaglia dell'Ebro, ultimo sforzo
bellico dell'esercito repubblicano; nel 1939 la caduta della Catalogna e la
fuga in Francia di oltre 200.000 repubblicani, e infine la consegna di Madrid
a Franco da parte di una “giunta di Difesa” ribelle al governo legittimo
e l'occupazione franchista del Levante valenciano.
Storia: l'ascesa di Franco e la sua dittatura
Sul piano politico, l'assunzione da parte di Franco di tutti i poteri civili
e militari (1º ottobre 1936) e il “decreto di unificazione”
del 17 aprile 1937 che creava un partito unico falangista-tradizionalista, struttura
portante della dittatura; mentre, dal lato repubblicano, la debolezza del governo
nei confronti delle potenti organizzazioni anarchiche (CNT-FAI), comuniste (col
suo forte V reggimento, comandato da E. Lister e J. Modesto), socialiste (PSOE-UGT)
e trotzkiste (POUM) – quest'ultima liquidata poi in piena guerra per ordine
di Stalin – determinò una situazione di caos che spiega anche troppo
bene i successi militari dei franchisti. Quando, dalla fine del 1937, il governo
del socialista J. Negrín riuscì a imporre una certa disciplina
nella retroguardia e a riorganizzare l'amministrazione, era ormai troppo tardi.
In realtà, l'ostinazione degli anarchici, dei trotzkisti e di parte dei
socialisti nel volere “prima la rivoluzione e poi la guerra”, contribuì
alla vittoria di Franco non meno dei potenti aiuti militari forniti a costui
da Hitler e da Mussolini. La guerra civile costò alla Spagna, a parte
le perdite materiali (distruzioni, regresso economico), ca. 300.000 morti sui
fronti di battaglia, più un numero imprecisato (ma forse ancora più
elevato) di vittime nelle retroguardie. Le esecuzioni di nemici del regime continuarono
per anni, dopo il 1939, nella Spagna franchista. Centinaia di migliaia furono
gli emigrati politici, fra cui molti intellettuali. Durante la seconda guerra
mondiale, il nuovo regime simpatizzò apertamente con la Germania e l'Italia,
ma limitò il suo intervento a una “divisione blu” (División
azul) che combatté a fianco dei tedeschi sul fronte russo. Dopo il 1945
si trovò isolato sul piano internazionale, ma fu letteralmente salvato
dalla guerra fredda che, dividendo gli ex Alleati, indusse gli Stati Uniti e
l'Inghilterra a considerare la Spagna un'utile pedina sullo scacchiere antirusso.
Così, la Spagna entrò nella FAO (1950), nell'UNESCO (1952) e infine
nell'ONU (1955), che pure l'aveva condannata come Paese non democratico nel
1946. Intanto il regime aveva iniziato un'evoluzione formale, proclamando la
Spagna regno (1947) – solo nel 1969 Franco riconobbe ufficialmente come
futuro successore Juan Carlos di Borbone, nipote di re Alfonso XIII –,
diminuendo il peso politico della Falange, mentre veniva dato maggior spazio
politico a personalità di estrazione cattolica, specie dopo il Concordato
con la Santa Sede (1953). Rimasero però sempre in vigore l'autorità
assoluta del caudillo (che solo nel 1973 rinunciò alla carica di capo
del governo per cederla a un suo fedelissimo, l'ammiraglio L. Carrero Blanco),
il partito unico ribattezzato Movimento nazionale (nonostante dissensi sempre
più palesi tra falangisti e monarchici), i tribunali militari con leggi
ferree contro gli scioperi, le associazioni “illegali” ecc.; e inoltre
la censura sulla stampa e il teatro, il sindacato “verticale” o
statale, il predominio governativo dell'industria (INI), del commercio, del
petrolio ecc. Un cauto passo in direzione liberale fu l'entrata in vigore della
“legge organica”, approvata con referendum il 14 dicembre 1966.
Tuttavia l'opposizione contro il regime trovò sempre più largo
seguito tra vari strati della popolazione (operai, studenti, basso clero) e
soprattutto nei Paesi Baschi (ad opera dell'ETA) e in Catalogna, dove più
forti erano le istanze autonomistiche. Nel 1973 il primo ministro Carrero Blanco
fu ucciso in un attentato rivendicato dall'ETA; lo sostituì C. Arias
Navarro che accentuò l'indirizzo autoritario di un governo ormai agonizzante,
bersaglio di indignate proteste da parte dei governi democratici di tutto il
mondo.
Storia: il processo di democratizzazione dopo Franco (1975)
Il 20 novembre 1975 moriva Franco e gli succedeva il principe Juan Carlos, incoronato
due giorni dopo re di Spagna. Cresciuto fino a quel momento all'ombra del caudillo,
il nuovo re si trovò in una situazione molto difficile, con un apparato
interamente franchista in un Paese che ormai da tempo non lo era più.
Sostenuto moralmente, comunque, dalla maggioranza degli spagnoli, manovrò
con abile moderazione allo smantellamento del regime autoritario, avendo come
principali collaboratori dapprima lo stesso Arias Navarro e, dal luglio 1976,
un “uomo nuovo”, A. Suárez. Forti di un primo e incoraggiante
risultato conseguito nel referendum popolare del 14 dicembre 1976, il re e Suárez
condussero il Paese alle elezioni del 16 giugno 1977 (le prime libere tenute
in Spagna da 41 anni), nelle quali la coalizione centrista (UCD, Unione del
Centro Democratico) dello stesso Suárez ottenne la maggioranza relativa.
Questo risultato consentì una serie di riforme in senso democratico (amnistia
per i reati politici, soppressione del Tribunale dell'Ordine Pubblico e del
sindacato “verticale” unico, legalizzazione di tutti i partiti,
compreso il comunista, riconoscimento dei sindacati dei lavoratori, libertà
di stampa e di associazione, autonomia regionale ai Paesi Baschi, alla Galizia,
all'Andalusia). Suárez, riconfermato dalle elezioni del 1979, diede inaspettatamente
le dimissioni agli inizi del 1981; l'incarico di formare il nuovo governo fu
affidato a L. Calvo Sotelo in uno dei momenti più difficili per il precario
equilibrio di una democrazia in fase di costituzione. Il 23 febbraio 1981 vi
fu infatti un tentativo di colpo di stato messo in atto dal tenente colonnello
della Guardia Civile, A. Tejero, che alla testa di un gruppo di rivoltosi, invase
il Parlamento. Le forze armate si dichiararono fedeli al re che in quel momento
ebbe l'appoggio incondizionato di tutte le forze politiche. Dalla drammatica
vicenda la democrazia usciva rafforzata, mentre aumentava di prestigio la personalità
del re. In questo frangente Calvo Sotelo riusciva ad ottenere la fiducia del
Parlamento e a formare il nuovo governo, che alla prova dei fatti si rivelò
tuttavia incapace e incerto nel fronteggiare da una parte l'ingerenza politica
delle forze armate, dall'altra la recrudescenza dell'offensiva terroristica.
L'UCD, presentatasi smembrata e divisa al suo interno alle elezioni del 1982,
fu infatti nettamente sconfitta dal Partito socialista (PSOE) di F. González
Márquez, nuovo primo ministro di una compagine statale basata ormai su
un bipartitismo: sinistra socialista con maggioranza assoluta al potere, destra
di Alleanza popolare all'opposizione. Nel 1982 la Spagna entrava nella NATO,
ma in un secondo tempo i socialisti decidevano di sottoporre la questione al
giudizio degli elettori. Il 1º gennaio 1986 la Spagna, dopo anni di isolazionismo,
entrava anche nella CEE assieme al suo dirimpettaio iberico, il Portogallo.
La politica di risanamento economico, portata avanti da González nella
seconda metà degli anni Ottanta, provocava il riavvicinamento del sindacato
di ispirazione socialista UGT alle comuniste Comisiones Obreras, in funzione
antigovernativa. Di fronte alle nuove difficoltà González ricorreva
al voto anticipato e le urne, sia pure in modo ridotto, confermavano la maggioranza
assoluta ai socialisti del PSOE (ottobre 1989). Nei primi anni Novanta il terrorismo
dell'ETA che per altro aveva continuato a manifestarsi in modo virulento anche
per tutto il decennio precedente, concedeva una breve tregua in occasione delle
Olimpiadi svoltesi a Barcellona (1992), per riprendere subito dopo la sua propaganda
di sangue. Il terrorismo, la recessione economica, alcuni scandali che avevano
investito il PSOE, tutto concorreva a rendere incerte le elezioni del 1993 che
i socialisti riuscivano a vincere, ma perdendo la maggioranza assoluta, mentre
cresceva vistosamente la destra di I. Fraga (34,8%). González riusciva
comunque a formare un nuovo esecutivo grazie ad un “patto di solidarietà”
stretto con alcune forze autonomiste, disponibili a sostenere un governo a guida
socialista. La fase decrescente del PSOE veniva però confermata nelle
elezioni europee del 1994, quando per la prima volta i socialisti venivano superati
dai popolari. Nel settembre 1995, indebolito da nuovi scandali e dal coinvolgimento
di alcuni suoi esponenti nella vicenda dei GAL (formazioni parapoliziesche ritenute
responsabili dell’uccisione, negli anni Ottanta, di numerosi membri dell’ETA)
e messo in difficoltà dalla ripresa dell’offensiva terroristica
dell’ETA, il governo González perdeva l’indispensabile sostegno
parlamentare degli autonomisti catalani. Le elezioni politiche del marzo 1996
vedevano, quindi, da una parte la sconfitta del PSOE, che portava l’anno
successivo González a rinunciare alla guida del partito in favore di
J. Almunia, dall’altra la vittoria del Partito popolale (PP), guidato
dal leader J. M. Aznar. Questi, postosi come obiettivo, oltre alla lotta al
terrorismo dell’ETA, il risanamento dell’economia e la riduzione
del deficit pubblico e dell’inflazione al fine di permettere alla Spagna
di entrare a far parte del novero di Paesi che avrebbero adottato per primi
l’euro, dopo lunghe trattative, con l'indispensabile appoggio alle Cortes
dei partiti autonomisti basco e catalano, formava il nuovo governo. La questione
federalista, comunque, si poneva sempre più come decisiva per il futuro
della Spagna, soprattutto nel caso dei Paesi Baschi, per l’incidenza di
un terrorismo che da decenni investiva l’intera nazione. L’atteggiamento
intransigente del governo però non impediva il ripetersi di nuovi attentati,
nonostante fosse condiviso da una parte sempre più consistente dell’opinione
pubblica negli stessi Paesi Baschi, ferma nel dissociarsi dalle imprese dell’ETA.
La questione basca, quindi, rappresentava uno dei nodi nevralgici dell'azione
di governo che, dopo aver più volte respinto le proposte del Partito
nazionalista basco (PNV), alla fine del 1998, in seguito alla tregua unilaterale
proclamata dall'ETA, avviava difficili trattative per una soluzione di pace.
Nel luglio 1999 venivano, infatti, liberati i 22 membri dell'Herri Batasuna,
braccio politico dell'ETA, condannati nel 1997, ma, falliti i negoziati, in
ottobre l’ETA proponeva al governo la ripresa del dialogo diretto, ricevendo
in risposta un netto rifiuto che determinava la fine della tregua e la ripresa
degli attentati dinamitardi. Nel frattempo il governo di Aznar, raggiunto l’obiettivo
di far rientrare la Spagna tra i primi 11 Paesi che adottano l’euro dal
gennaio 1999, nonostante la ripresa del terrorismo e l’emergere di scandali
in cui restavano coinvolti esponenti di spicco dell’esecutivo, otteneva
un nettissimo successo sia nel giugno 1999, quando il PP si confermava principale
forza politica spagnola nelle consultazioni per il Parlamento Europeo, sia nel
marzo 2000 conquistando la maggioranza assoluta alle Cortes nelle elezioni legislative.
Letteratura: dagli scrittori latini alla fine del sec. XI
Scrittori latini nati in Spagna (pagani o cristiani che fossero), quali Seneca,
Lucano, Marziala, Quintiliano, Prudenzio e Orosio, vennero e vengono definiti
spagnoli da storiografi iberici nazionalisti ma, a parte il luogo di nascita,
non si vede che cosa ci sia di veramente ispanico in questi scrittori latini.
Diverso fu invece il caso di Isidoro di Siviglia – massima e pressoché
unica vetta culturale della Spagna visigota –, vissuto fra il sec. VI
e VII, nelle cui opere, e specialmente in quelle storiche, sembra affiorare
una certa coscienza di ispanità, come nella vasta enciclopedia filologica
Etymologiarum libri XX dove si coglie l'intenzione di sottolineare le peculiarità
ispaniche nel quadro della globale cultura latino-cristiana. I sec. VIII-XI
sono caratterizzati da lunghe e confuse lotte e da una travagliata gestazione
culturale. Quale eredità avessero lasciato i Germani (Visigoti e Svevi)
nel sapere degli Ibero-Romani è difficile accertare. Secondo R. Menéndez
Pidal, germaniche sarebbero le origini della futura epica castigliana e il “ciclo
di Rodrigo”, per esempio, sarebbe nato addirittura nel sec. VIII, ossia
subito dopo la scomparsa dell'ultimo re visigoto nella battaglia del Guadalete.
Appare comunque certo che nella lingua romanza gli elementi germanici erano
scarsi e se esistevano forme di poesia popolare non è sicuro che fossero
sempre di origine germanica. È noto che gli invasori musulmani rispettarono,
in genere, la religione, la lingua e i costumi dei loro sudditi cristiani (detti
mozarabi) ed ebrei. Ma ben presto si andò affermando una ricca e splendida
cultura musulmana che influì largamente sul pensiero e sull'arte d'Europa.
I nomi di Ibn Rushd (l'Averroè degli scolastici e di Dante), Ibn Hazm
, Ibn Masarra, Ibn al-!Arabi ecc. e degli ebrei Maimonide, Ibn Gebirol (l'Avicebron
degli scolastici), Jehuda Halevi, poeta e filosofo, attestano l'ampiezza e la
libertà di questa straordinaria fioritura intellettuale. Quanto alla
poesia, il canzoniere tipicamente “meticcio” del cordovese Ibn Quzman
(ca. 1080-1160), mentre anticipa forme e modi che saranno poi dei giullari europei,
denuncia contatti con una tradizione poetica e popolare indigena, la cui esistenza
è stata anche dimostrata dalla scoperta di liriche bilingui – in
arabo, ma con “congedi” in protoromanzo iberico – risalenti
fino al sec. XI, cioè anteriori alle più antiche liriche volgari
europee finora conosciute. Quanto alla narrativa, basti ricordare la Disciplina
clericalis di Pero Alfonso (un ebreo di Huesca battezzato nel 1106), raccolta
di 33 apologhi tratti da fonti arabe, persiane e indiane, e trasmessi in tal
modo alla posteriore narrativa europea. Pertanto, anche gli studiosi che non
accolgono interamente la tesi radicale di A. Castro (secondo il quale non si
può parlare di Spagna e di cultura spagnola se non dopo l'islamizzazione
della penisola e come diretta conseguenza di essa) devono ammettere l'immensa
importanza dei secoli di simbiosi e di scambi culturali arabo-ebraico-cristiani,
durati almeno fino alla conquista dell'Andalusia mora da parte del re castigliano
Ferdinando III (metà del sec. XIII), e accettare la definizione di Menéndez
Pidal della Spagna come eslabón (anello di congiunzione) fra l'Islam
e la cristianità medievale. Ne sono, del resto, diretta conferma anche
le migliaia di vocaboli e di idiotismi di origine semitica tuttora esistenti
nelle lingue ibero-romanze. Non meno decisivi, tuttavia, vanno considerati gli
apporti ed esempi europei. Il latino, come lingua scritta e della cultura ufficiale
della Chiesa e delle cancellerie, non cessò di essere usato nei piccoli
regni cristiani sorti fin dal primo secolo dell'invasione araba sulla Cordigliera
Cantabrica e lungo i Pirenei. I contatti fra questi regni e l'Europa “franca”,
iniziati all'epoca carolingia con la creazione della Marca Ispanica (sec. VIII-IX),
andarono intensificandosi soprattutto dopo il crollo del califfato di Cordova
(1031), la nascita del regno di Castiglia e la conquista di Toledo da parte
di Alfonso VI (1085); e mentre i monaci cluniacensi fondavano grandi monasteri,
centri di cultura romana, nobili guerrieri e commercianti franchi collaboravano
alle “crociate” castigliane e davano impulso ad attivi scambi commerciali.
Letteratura: dal XII alla fine del XIV secolo
Fatto capitale fu anche l'apertura della “strada di San Giacomo”,
che per vari secoli (dal XII in poi) vide sfilare migliaia di pellegrini europei
– fra cui, certo, anche affaristi e viaggiatori, letterati e giullari
– diretti a Santiago de Compostela, divenuto uno dei centri della cristianità
medievale. In tal modo, mentre presso le corti peninsulari si coltivava largamente
la poesia trovadorica, anche a opera di sovrani quali Alfonso II d'Aragona,
Dionigi di Portogallo e Alfonso X il Dotto di Castiglia (grande e illuminato
patrono della cultura nazionale), i giullari divertivano il popolo sulle strade
e sulle piazze; la Chiesa stessa, ostile dapprima alle mode mondane e all'uso
delle lingue volgari, finì per comprendere l'utilità delle rappresentazioni
liturgiche di Natale e della Settimana Santa e delle recite festive di poemi
edificanti. Decaduta e quasi scomparsa la cultura del Mezzogiorno musulmano,
la Spagna cristiana ebbe, quindi, parte non piccola nel grandioso fervore di
rinascita che caratterizzò l'Europa occidentale dal sec. XI in avanti.
Fra le tre principali lingue romanze, nate dal latino volgare e pervenute a
livello artistico dal sec. XII in poi, il catalano mantenne più lunghi
contatti con il Sud di Francia (dove i re aragonesi ebbero anche domini e interessi
politici) e successivamente con l'Italia dell'umanesimo e del Rinascimento.
Massimi rappresentanti della poesia catalana furono lo straordinario mistico
francescano Raimondo Lullo (Ramón Llull), morto verso il 1315, e più
tardi il lirico petrarchista Ausias March (ca. 1397-1459). Importante e originale
fu anche la fioritura lirica in Galizia (sec. XIII-XV), a tal punto che persino
Alfonso X di Castiglia, assertore convinto della superiorità del castigliano
su tutte le lingue peninsulari (e sul latino stesso), compose in galiziano le
proprie poesie: Cantigas de Santa María (Cantiche di Santa Maria). Ma
presto il distacco del Portogallo dalla matrice galiziana, col conseguente inizio
di una letteratura portoghese autonoma, e la supremazia politica castigliana
fecero della Galizia una remota provincia senza storia. La Catalogna, fiorente
Stato mediterraneo, resistette più a lungo, cioè fino all'unificazione
spagnola (sec. XVI), dando anche col Tirant lo Blanch (ca. 1460) un primo esempio
di romanzo cavalleresco. Ma poi la sua letteratura scomparve, per rinascere,
come quella galiziana, solo nel sec. XIX. La prepotente dinamica delle vicende
storiche fece, dunque, della Castiglia l'asse e il motore politico-civile della
Reconquista e pertanto del castigliano – la più tardiva delle lingue
romanze peninsulari, ma anche la più chiara, semplice e aperta –
la lingua dominante negli atti pubblici, nella letteratura ufficiale (cronache
e testi giuridici, come quelli compilati per ordine e sotto la personale direzione
del re sapiente, Alfonso X, 1221-1284), e in quella creativa. Il primo e più
interessante fenomeno di quest'ultima è senza dubbio l'epica. A parte
l'intricata e forse irresolvibile questione delle origini (germaniche? arabe?
franco-europee?), il pathos epico predominò talmente nel primitivo spirito
castigliano che, dopo aver nutrito varie generazioni di giullari popolari –
ai quali spetta il merito di aver trasfigurato in epica la figura storica del
Cid Campeador, e non solo questa –, permeò di sé le cronache
in prosa, penetrò persino nei dotti monasteri (dando origine ai poemi
colti del mester de clerecía), rifiorì più tardi (sec.
XIV-XVI) nel meraviglioso Romancero – multiforme e inesauribile “Iliade
senza Omero”, secondo la famosa definizione romantica –, accompagnò
le imprese della conquista di Granada (1492) e le incredibili prodezze d'America;
e, dopo la nascita della Spagna imperiale, ispirò ancora poeti colti,
drammaturghi, narratori storici e cavallereschi del Siglo de Oro, per calare
poi a fondo fino agli anonimi autori di romances di banditi e gitani (sec. XVIII),
di corridos messicani e di poemi gaucheschi argentini (anche il gaucho è,
in fondo, un eroe epico), sopravvivendo nelle più disparate forme fino
a tempi anche non troppo remoti. È chiaramente arbitrario ancorare tale
disposizione epica a un non bene precisabile realismo, che sarebbe uno dei due
caratteri fondamentali dell'intera letteratura spagnola (un irrealismo lirico
e barocco, con epicentro nel Meridione moresco, sarebbe il secondo). Ma l'imponenza
e la vastità, nel tempo e nello spazio, del fenomeno non è contestabile.
Della primitiva epica giullaresca castigliana l'unico testo pervenutoci pressoché
intatto è il Cantare del Cid, composto intorno al 1140, la cui importanza
è capitale, anche a livello europeo. Ma le cronache recano tracce indubbie
di altri cicli epici: la fine della Spagna visigota, le origini castigliane
e la figura leggendaria di Fernán González, i Sette Infanti di
Lara (truce storia di odi e vendette medievale, con la moresca Cordova sullo
sfondo), la leggenda carolingia fino a Roncisvalle (con Bernardo del Carpio,
sorta di anti-Orlando iberico) ecc.; temi tutti di larga fortuna. Quello del
Cid, per esempio, riappare nel tardo Cantar de Rodrigo, centrato ormai sul romanzo
degli amori con Jimena, in varie cronache, in centinaia di romances e in poemi
colti (fino a Fernán Pérez de Guzmán e al cinquecentesco
Jiménez Ayllón), per passare poi al teatro. Altri temi sono invece
leggendari (campana di Huesca), o di storia più “moderna”
(Poema de Alfonso XI, del trecentesco Yáñez). Ai secoli delle
guerre di frontiera fra Castiglia e Mori di Granada (sec. XIV-XV) risalgono
invece i più antichi testi del Romancero, divenuto poi il genere più
popolare della letteratura spagnola (a tal punto che migliaia di romances sono
stati raccolti dalla tradizione orale non solo in tutta la Spagna, ma anche
in America e presso i sefarditi, ossia gli ebrei espulsi dalla Spagna nel 1492).
Presto però (sec. XIII), accanto ai poemi giullareschi e talvolta sugli
stessi argomenti, si andò sviluppando la poesia colta (mester de clerecía),
che ha i suoi testi più rappresentativi nel Poema di Fernán González,
in quelli romanzeschi di Alessandro Magno e di Apollonio (temi orientali divenuti
europei attraverso la poesia francese) e soprattutto nei poemi religioso-narrativi
di Gonzalo de Berceo – il primo poeta di nome noto –, un pio prete
riojano educato nel monastero benedettino di Spagna Millán de la Cogolla
e morto verso il 1265. I suoi Miraclos de Nuestra Señora sono un eccellente
esempio di trapianto in Spagna dei temi della leggenda aurea, anch'essi poi
di larga fortuna anche nella narrativa e nel teatro. Circa quest'ultimo, un
solo frammento superstite dell'Auto de los Reyes Magos (Auto dei Re Magi), attribuito
al sec. XIII, sta a dimostrare che si trattava di un genere di derivazione francese.
Nel Medioevo spagnolo nulla lascia sospettare il prestigio favoloso che il teatro
avrebbe avuto dal Cinquecento in avanti. Nel sec. XIV il carattere più
saliente della letteratura castigliana fu la mudejarizzazione, ossia la fusione,
in sintesi originale, di dati e generi di matrice orientale con dati europei:
in sostanza, una sorta di meticciato culturale. Due personalità eccezionali
emergono: un misterioso Juan Ruiz, arciprete di Hita, morto verso il 1350, e
il principe Juan Manuel (1282-1348), nipote del grande re Alfonso X il Dotto.
Sotto il nome del primo ci è pervenuta una singolarissima opera lirico-narrativo-satirica,
il Libro de Buen Amor, oggetto tuttora di controversie critiche, ma in ogni
caso di eccezionale importanza artistica e culturale e certamente una delle
opere più originali dell'intero Medioevo europeo; il secondo lasciò
una vasta opera in prosa, narrativa e storica, culminante nel Libro de Patronio
o Conde Lucanor (Il conte Lucanor), collana di racconti morali, “incorniciati”
al modo orientale e narrati con una gravità “principesca”,
non senza qualche variegatura ironica che rivela, oltre a quella morale, l'intenzione
artistica. Contemporaneo di Boccaccio e di G. Chaucer (che certo non conobbe),
Juan Manuel è il terzo fondatore della narrativa europea. I primi influssi
umanistici, avvertiti specialmente in Catalogna, e più concrete preoccupazioni
politico-civili per le crisi europee e spagnole (guerra dei Cent'anni, grande
scisma d'Occidente, tragedia di re Pietro I il Crudele) si riflettono variamente
in altri – e minori – scrittori, quali il rabbino Sem Tob (ca. 1296-ca.
1369), autore di gravi e stoici Proverbios morales, e il cancelliere Pedro López
de Ayala (1332-1407), di cui resta ammirevole la Crónica dei re di Castiglia,
più del lungo poema Rimado de Palacio, di carattere didattico-morale.
Letteratura: il XV secolo
La crisi non fece che aggravarsi nel sec. XV, vero autunno del Medioevo, per
la debolezza della dinastia dei Trastámara (sempre molto sensibile, peraltro,
alle istanze culturali e amica di umanisti e poeti soprattutto all'epoca di
re Giovanni II, 1419-54) e la crescente violenza delle discordie civili, che
provocò alla fine del secolo la reazione autoritaria di Isabella la Cattolica.
Fiorirono gli studi umanistici, sugli esempi italiani – traduzioni di
testi classici, indagini filologiche ed estetiche (dall'Arte de Trovar, di Enrique
de Villena, alla prima Grammatica castigliana, 1492, di Antonio de Nebrija),
la letteratura storica, la poesia satirica fino a punte di estrema crudezza
(Coplas del Provincial), gli studi religiosi dettati da un palese desiderio
di rinnovamento spirituale e la lirica di raffinata eleganza “cortese”.
Tra i moltissimi poeti minori (presenti soprattutto in raccolte antologiche,
come il Cancionero de Baena, 1445, quello di Lope de Stuñiga, 1460, e
altri fino al tardo Cancionero general, 1511, di Hernando del Castillo) emergono
poeti colti, buoni conoscitori della poesia italiana, quali il marchese di Santillana
(1398-1458), il citato umanista Enrique de Villena (1384-1434), Jorge Manrique
(1440-1479), aristocratico, soldato, autore di una delle più belle liriche
dell'intera letteratura spagnola (Coplas por la muerte de su padre, Stanze per
la morte del padre), e Juan de Mena (1411-1456), educato in Italia e autore
di poemi allegorico-morali (El laberinto de fortuna) validi soprattutto per
la novità del linguaggio poetico. Notevoli testi di prosa, fra cui il
satirico Corbacho (Corbaccio) di Alfonso Martínez de Toledo, arciprete
di Talavera (1398-ca. 1482), e le belle Cronache di Hernando del Pulgar (ca.
1430-ca. 1493) completano il panorama del primo Rinascimento ispanico, ricco
di fermenti vitali. La successiva età dei re cattolici, accentuando la
rinascita religiosa – con testi in versi e in prosa di Íñigo
de Mendoza (ca. 1425-1507), Ambrosio Montesino (ca. 1448-ca. 1512), Hernando
de Talavera (1428-1507) e diversi altri –, impresse all'umanesimo castigliano
uno spirito messianico di nazionalismo trionfalista, con inquietanti punte inquisitoriali
e antisemite. Non tutto però fu ufficiale e conformista, in essa. Vi
si svilupparono anche generi ben più liberi e artistici, come il teatro
– di radici umanistiche, fra la dotta Salamanca e la piccola corte dei
duchi di Alba, ad Alba de Tormes, per merito del poeta e musicista Juan del
Encina (ca. 1468-1529) – e la narrativa romanzesca, di spiriti e strutture
ben più moderne rispetto all'aneddotico racconto medievale. Diego de
San Pedro, con la celebre Cárcel de Amor (1492) e Juan de Flores col
Grimalte y Gradissa (ca. 1495) sono i creatori del romanzo psicologico-sentimentale
(su radici italiane: la Fiammetta di Boccaccio, E. S. Piccolomini ecc.); mentre
il romanzo cavalleresco e avventuroso, di chiari precedenti francesi, portoghesi
e catalani (Tirant lo Blanch, “il miglior libro del mondo” secondo
Miguel de Cervantes), ha un prodigioso rilancio in castigliano, grazie a uno
dei libri più letti, ammirati e imitati del secolo: l'Amadigi di Gaula
(1508).
Letteratura: gli umanisti
Ma proprio alla fine del secolo (Burgos, 1499) l'ebreo convertito e semiclandestino
Fernando de Rojas (m. 1541) dava alla Spagna il suo primo capolavoro moderno:
la Tragicomedia de Calixto y Melibea, detta poi La Celestina, dal nome del suo
personaggio più nuovo e potente, una vecchia e spregiudicata mezzana
che favorisce gli amori di due giovani impossibilitati a sposarsi (forse per
pregiudizi religiosi e sociali), avviandoli a un catastrofico destino. Sorta
di lungo romanzo dialogato e non rappresentabile, La Celestina presentava fin
da principio diversi problemi critici, non tutti risolti. Ma l'originalità
dell'opera – nonostante le evidenti fonti umanistiche e rinascimentali
–, la sua feroce amoralità senza speranza, l'impressionante violenza
delle passioni che vi si scatenano e della critica sociale che vi è sottesa,
la totale icasticità dei personaggi, nobili o plebei che siano, oltre
a farne qualcosa di artisticamente unico e irripetibile spiegano l'immensa e
duratura fortuna che ebbe poi nel teatro e nella narrativa, e non soltanto in
Spagna (ma anche, per esempio, nel dramma elisabettiano). Dalla Celestina all'inizio
della Controriforma (il cui primo concreto connotato fu l'Indice dei libri proibiti,
1559, dell'inquisitore Juan de Valdés), la cultura spagnola visse un
momento europeo di pienezza e vitalità rinascimentale. Gli stretti contatti
con l'Italia determinarono una splendida fioritura del pensiero filosofico e
religioso, degli studi classici, della poesia lirica, della narrativa e del
teatro, favoriti dal mecenatismo di Carlo V, imperatore europeo, degli aristocratici
e persino di dignitari ecclesiastici, come i cardinali Manrique – l'inquisitore
generale che patrocinò, addirittura, l'edizione dell'Enchiridion di Erasmo,
messo poi all'Indice nel 1559 –, A. de Fonseca e B. Carranza, quest'ultimo
vittima egli stesso, più tardi, dell'Inquisizione. Fiorirono movimenti
di rinascita spirituale, come quelli degli alumbrados (illuminati), degli erasmisti
e dell'ascetismo francescano e domenicano, basi di quello che fu poi l'originale
misticismo spagnolo fino a Santa Teresa e a San Giovanni della Croce. Fecondato
da stimoli erasmiani, l'umanesimo religioso produsse figure di altissimo rilievo
morale e intellettuale, come il filosofo e pedagogista Juan Luis Vives (1492-1540),
i fratelli Alfonso (ca. 1490-1532) e Juan de Valdés (m. 1541), i grecisti
Francisco (m. 1545) e Juan de Vergara (m. 1557), il geniale ed enigmatico Cristóbal
de Villalón, i medici-filosofi Andrés Laguna (1499/1511-1559),
probabile autore del Viaje de Turquía, e Francisco López de Villalobos
(ca. 1473-1549), l'enciclopedico Francisco Sánchez de las Brozas, detto
El Brocense (1523-1601), e molti altri, per culminare nel teologo, ebraista
e sommo poeta Luis de León (1527-1591), “cristiano nuovo”
(ossia discendente di ebrei), come molti di questi riformatori cattolici. La
poesia lirica, rinnovata negli spiriti e nelle forme dagli esempi italiani,
inizia col grande Garcilaso de la Vega (1503-1536), esempio perfetto di “cortegiano”
del Rinascimento, un trionfale cammino ascendente su cui si mossero anche il
citato Luis de León, Juan Boscán (ca. 1490-1542), il sivigliano
Fernando de Herrera (1534-1597), Francisco de Aldana (1528-1578), Gutierre de
Cetina (ca. 1520-1557), Cristóbal de Castillejo (1480/1490-1550), Baltasar
del Alcázar (1530-1606), Jorge de Montemayor (ca. 1520-1561), Francisco
de la Torre, Francisco de Figueroa (1536-1617), Hernando de Acuña (1520-1580),
Bartolomé (1562-1631) e suo fratello Lupercio Leonardo de Argensola (1559-1613),
Francisco de Medrano (1570-1607), Andrés Fernández de Andrada
(considerato autore della stupenda Epístola moral a Fabio, ca. 1626),
e diversi altri, fino al mistico carmelitano san Giovanni della Croce (1542-1591),
il cui breve canzoniere, a parte il valore religioso illustrato dallo stesso
poeta nei lunghi e densi commenti in prosa, tocca livelli altissimi di puro
lirismo. Né meno interessanti furono gli sviluppi del teatro, in cui
gli esempi dei comici italiani dell'Arte (più ancora che i testi umanistici
e le traduzioni e imitazioni di Plauto, Terenzio e dei tragici greci) suscitarono
continuatori originali quali Lope de Rueda (m. 1565), Juan de Timoneda (m. 1583)
e Juan de la Cueva (ca. 1543-1610), oltre a Gil Vicente (ca. 1460-forse 1536)
e Bartolomé de Torres Naharro (m. forse 1524), che operarono fuori di
Spagna.
Letteratura: l'evolversi del filone morale-religioso e di quello narrativo
Senza tali precedenti resterebbe inspiegabile la grande rivoluzione teatrale
iniziata intorno al 1580 da Cervantes e, più ancora, da Lope de Vega.
Nella prosa, infine, nacquero dalla stessa matrice umanistica due filoni destinati
poi a divergere: quello morale, storico e religioso, e quello narrativo. Il
primo fu coltivato, con esiti vari, oltre che dai citati erasmisti (i quali
spesso scrivevano ancora in latino, come Juan Luis Vives), da scrittori colti
quali Antonio de Guevara (1480-1545), noto in Europa per le eleganti Epístolas
e due brevi testi retorico-morali, il Relox de príncipes (Orologio di
principi) e il Menosprecio de la corte y alabanza de aldea (Disdegno della corte
ed elogio del villaggio); e inoltre da Diego Hurtado de Mendoza (1503-1575),
autore di una classica Historia de la guerra de Granada; Pero Mexía (ca.
1499-1551) e Luis de Ávila y Zúñiga (1500-1573), storici
di Carlo V; numerosi storici delle scoperte e conquiste americane, fra cui Hernán
Cortés, conquistatore del Messico, Gonzalo Fernández de Oviedo
(1478-1557), Francisco López de Gómara (1511-ca. 1562), Bernal
Díaz del Castillo (1492-1581), la cui Verdadera historia de los sucesos
de la conquista de la Nueva España è un autentico capolavoro,
Francisco de Jerez (1504-1539), cronista di F. Pizarro, e altri. Ma ancora più
folta è la schiera degli scrittori religiosi, ascetici e mistici, che
annovera personalità di prim'ordine, quali Francisco de Osuna (1497-ca.
1540), il poeta fray Luis de León (autore anche del mirabile De los Nombres
de Cristo), il santo Giovanni d'Ávila (ca. 1500-1569), il multiforme
Luis de Granada (1504-1588), Diego de Estella (1524-1578), Giovanni degli Angeli
(1536-ca. 1609), Alonso de Orozco (1500-1591), Pedro Malón de Chaide
(ca. 1530-1589) e molti altri, fino alla straordinaria santa Teresa d'Ávila
(1515-1582), riformatrice del Carmelo e scrittrice senza pari nell'autobiografia
(Libro de su vida), nelle mistiche Moradas (Dimore), nell'epistolario e in altre
opere di grande interesse storico e letterario. Il filone narrativo annovera
vari generi: il romanzo cavalleresco, nato dall'Amadigi e continuato da decine
di testi “commerciali” molto letti fino a Cervantes (che li superò
di gran lunga col Don Chisciotte); il romanzo pastorale, nato dall'Arcadia di
Iacopo Sannazaro, che culmina nella Diana (1558-59) di Jorge de Montemayor e
nella Diana enamorada (1564) di Gaspar Gil Polo; il racconto moresco, con la
Historia del Abencerraje y de la bermosa Jarifa (Storia dell'Abenceragio e della
bella Jarifa) di Alonso de Villegas e Las guerras de Granada di Ginés
Pérez de Hita (ca. 1544-ca. 1616); la novella italiana, trapiantata da
Juan de Timoneda con El Patrañuelo (1567; Il raccontafavole) e infine
la picaresca, iniziata nel 1554 da un breve e straordinario capolavoro di autore
anonimo, il Lazarillo de Tormes, che rovesciava, per così dire, il trionfalismo
della letteratura “imperiale” per narrare con realistica ironia
(non disgiunta da umana pietà) e aperte intenzioni polemiche, la “biografia”
niente affatto edificante di un misero proletario. A metà strada fra
la Celestina e il Don Chisciotte, la Spagna del Rinascimento apriva col Lazarillo
un'altra via nuova alle letterature europee. Ultimo – e minore –
dato, nel quadro, molto ricco e vario, della Rinascenza ispanica, è il
poema epico. Nata insieme dagli indimenticabili esempi classici e italiani (Virgilio,
Ariosto, Tasso) e dalla realtà storica delle imprese spagnole in Europa
e in America, l'ambizione epica tormentò numerosi poeti iberici, ma i
risultati rimasero, in genere, molto al di sotto delle intenzioni, salvo che
in un caso: quello dell'Araucana, di Alonso de Ercilla (1533-1594), che cantò
prolissamente la conquista del Cile, alla quale il poeta prese parte. Il lungo
regno di Filippo II (1556-98), in coincidenza con la Controriforma religiosa
e la disperata lotta della Spagna contro nemici troppo forti (Inghilterra, Francia)
per difendere domini troppo vasti, rappresentò l'inizio di un'involuzione
culturale destinata a finire presto in aperta decadenza. Ciò non significò,
tuttavia, la perdita di ogni facoltà creatrice, nella letteratura e nell'arte,
ma i processi inquisitoriali, l'Indice dei libri proibiti, l'isolamento culturale
dal resto d'Europa, l'orgoglio nazionalistico incoraggiato dalla retorica ufficiale,
portarono inevitabilmente, a lungo andare, a un inaridimento spirituale, mentre
la crisi economica – incomprensibile contrappasso della potenza imperiale
spagnola – riempiva le strade di avventurieri e mendicanti (pícaros)
e i conventi di desengañados.
Letteratura: il passaggio dal Rinascimento al Barocco
Isolato sullo spartiacque fra il luminoso meriggio rinascimentale e il triste
crepuscolo manierista e barocco sta il più grande degli spagnoli: Miguel
de Cervantes (1547-1616), che, per “dare conforto al cuore malinconico
e umiliato” di un ex eroe di Lepanto e di Algeri ridotto a esattore di
gabelle, scrisse il primo romanzo dell'epoca moderna, il Don Chisciotte, splendide
novelle (Novelas ejemplares, Novelle esemplari) e intermezzi, molte opere teatrali
(fra cui El cerco de Numancia, L'assedio di Numanzia) e due altri romanzi: La
Galatea e Los trabajos de Persiles y Sigismunda (I travagli di Persile e Sigismonda).
Quasi nello stesso momento, un altro e ben diverso genio, Lope de Vega (1562-1635),
dava al teatro migliaia di commedie, scatenando un incredibile “tifo”
popolare, e trovava modo di scrivere anche, fra le avventure non esemplari di
una vita spericolata, vari canzonieri lirici, poemi lunghi, romanzi, novelle,
nonché una nuova e barocca Celestina intitolata La Dorotea. Da lui aveva
inizio un intero secolo di civiltà teatrale spagnola, che doveva chiudersi
con la morte di Pedro Calderón de la Barca (1600-1681), dopo aver prodotto
molti autori – diversi di primo piano quali Tirso de Molina (ca. 1584-1648),
Juan Ruiz de Alarcón (ca. 1581-1639), Francisco de Rojas Zorrilla (1607-1648),
l'oriundo italiano Agustín Moreto (1618-1669), Luis Quiñones de
Benavente (ca. 1589-1651) e vari minori tra cui A. Cubillo de Aragón
(ca. 1596-1661), Juan Bautista Diamante (1625-1687), Bances Candamo (1662-1704),
Guillén de Castro y Bellvis (1569-1631), autore delle Mocedades del Cid
(Le gesta giovanili del Cid), J. Pérez de Montalbán (1602-1638),
autore di Los amantes de Teruel (Gli amanti di Teruel), L. Vélez de Guevara
(1579-1644), A. Mira de Amescua (1574/77-1644), autore del Esclavo del demonio
(Lo schiavo del demonio), Antonio de Solís y Rivadeneira (1610-1686),
Antonio Coello y Ochoa (1611-1682) – e innumerevoli opere di ogni genere:
drammi, commedie agiografiche, fantastiche, di “cappa e spada”,
satiriche, intermezzi con o senza musica, fino agli autos sacramentales eucaristici
e simbolici, che rappresentano il vertice della smisurata “macchina”
teatrale barocca spagnola. In essa dovevano trovare – e ben lo si comprende
– una vera miniera di temi, situazioni e personaggi, la maggior parte
dei teatri europei, e in particolare il teatro classico francese (da P. Corneille
a Molière), l'elisabettiano e l'italiano fino ai settecenteschi libretti
d'opera e a Carlo Gozzi. Né meno importante fu, anche a livello europeo,
l'altro genere tipico della Spagna barocca: la narrativa picaresca. Ripresa,
dopo il lontano prototipo del Lazarillo, da Mateo Alemán (1547-ca. 1614),
con il Guzmán de Alfarache, la picaresca fu successivamente continuata
da altri, fra cui il grande Francisco de Quevedo y Villegas (1580-1645) con
la Vida del buscón llamado don Pablos (Storia della vita del paltoniere
chiamato don Paolo), Vicente Espinel (1550-1624), A. del Castillo Solórzano
(1584-1648), F. López de Úbeba, Jerónimo de Alcalá
(1563-1632), A. de Salas Barbadillo (1581-1635), Carlos García, A. Enríquez
Gómez (1600-1663), Maria de Zayas y Sotomayor (1590-ca. 1661) ecc., sempre
sulla linea realistica (biografia di un reietto della società, “servo
di molti padroni”, deciso a “vivere” con qualsiasi mezzo e
malgrado tutto e tutti), ma con varianti tonali che vanno dalla caricatura grottesca
e iperrealistica alla palese intenzione di contestazione e protesta sociale,
fino a una visione del mondo totalmente pessimista e nichilista. Il barocco
spagnolo annovera anche moltissimi poeti, ma uno solo può e deve dirsi
grande e nuovo: Francisco de Quevedo. Prosatore potente nel citato Buscón,
come in altri testi satirici (Sueños, Sogni; La hora de todos), filosofico-morali
(La cuna y la sepultura) e persino ascetici e devoti (vite di s. Paolo e di
Bruto, Providencia de Dios ecc.), Quevedo esprime nelle sue liriche, con un
linguaggio denso e intenso, superbamente modulato, una concezione coerente e
sconsolata della vita e della storia, indulgendo spesso a un umorismo nero e
spietato, ma capace anche di mirabili effusioni sentimentali. Accanto a lui,
il suo nemico Luis de Góngora (1561-1627), famoso autore dei poemi Soledades
(Le solitudini) e Polifemo e di un discusso canzoniere lirico, appare certamente
abilissimo nell'uso di un raffinato linguaggio manieristico e nell'espressione
di un mondo prezioso e favoloso, gremito di allusioni culturali incomprensibili
allo spregiato “volgo ignorante”; ma anche di un'umanità
meno ricca e meno sostanziale. Forse per questo Góngora ebbe numerosi
imitatori (di un sempre più retorico barocchismo), mentre Quevedo non
ne ebbe, e meglio resiste, d'altra parte, al tempo. Il Seicento ispanico si
chiude con una serie di prosatori morali e religiosi, fra i quali emergono l'indocile
gesuita Baltasar Gracián y Morales (1601-1658), maestro dell'agudeza
(massima paradossale, sentenza pregnante), e il mistico quietista Miguel Molinos
(1628-1696), che morì a Roma nelle carceri dell'Inquisizione. Nelle opere
del primo (El héroe, El discreto – raccolte “monografiche”
di agudezas –, e il romanzo allegorico El criticón, Il criticone),
come, in modo diverso, nella Guía espiritual del secondo, culmina il
pessimismo della Spagna barocca, stanca di se stessa e del mondo ostile. I rimedi
proposti sono uno stoicismo aristocratico, intelligente e amaro (Gracián),
o un Dio negativo, incomprensibile, molto simile all'abisso del Nulla, in cui
l'anima viene esortata a immergersi (Molinos). Due vicoli senza uscita.
Letteratura: l'influenza dell'Illuminismo
Il sec. XVIII è, quindi, nei migliori spagnoli una volontà di
“ricominciare da capo”, cioè di “riaprirsi” all'Europa
e al mondo (il mondo, nel frattempo, era diventato più grande, per merito
soprattutto della scienza); nei peggiori, e nelle masse, un adagiarsi nel “continuare”
a vivere, con l'alibi ideologico del “rispetto delle tradizioni nazionali”
e del “culto delle grandezze passate”. Un intelligentissimo benedettino
galiziano, Benito Feijoo y Montenegro (1676-1764), aprì la via all'illuminismo
spagnolo. Enciclopedico e razionalista, nemico quindi delle superstizioni, dell'ignoranza
e di tutti i barocchismi (fondati, per lui, sulla menzogna, sul “non sentito”
e quindi “non vero”), è però sempre un cristiano convinto
e ottimista: usare la ragione non significa, per Feijoo, negare Dio, bensì
al contrario glorificarlo. E criticare la Spagna vecchia, in ritardo sul resto
d'Europa, vuol dire crearne una nuova, giovane e aperta al futuro (il sogno
dei maggiori spagnoli venuti dopo di lui). Codesta volontà di rinnovamento,
su basi critiche e moderne, dilagò, dopo Feijoo, in tutti i campi –
la storia (E. Flórez, Muñoz, G. Mayans y Siscar, fino a Ferreras
e J. F. Masdeu), l'estetica (I. de Luzán, 1702-1754), la critica d'arte
(A. Ponz, 1725-1792) e letteraria (Diario de los Literatos e altri periodici;
M. Sarmiento, 1695-1771; T. A. Sánchez, 1723-1802; A. Montiano, 1697-1764;
L. Velázquez, 1722-1772), il teatro (R. de la Cruz, 1731-1794; J. Cadalso,
1741-1782; i due Moratín: Leandro, 1760-1828, e Nicolás, 1737-1780),
la narrativa (J. F. de Isla, 1703-1781; P. Montengón, 1745-1824; I. Zamácola,
1756-1826), la pubblicistica, l'economia, le scienze giuridiche, la pedagogia
(ossessione di tutti gli illuministi) – e si espresse soprattutto nel
genere più caratteristico e originale del secolo: la saggistica. Saggisti
sono infatti, in essenza, i due maggiori scrittori del secolo: il già
citato José Cadalso e G. M. de Jovellanos (1744-1811), esemplari illuministi
e talmente nuovi, nel pensiero come nella scrittura, che solo oggi si possono
comprendere nel loro pieno significato. È quindi giusto e fondato parlare
di un'autentica rinascita settecentesca dello spirito spagnolo, che coincide
quasi esattamente col regno del buon re “napoletano” Carlo III (1759-1788),
per declinare e offuscarsi all'epoca del suo imbelle successore Carlo IV (1788-1808),
anche a causa dei gravi fatti storici (Rivoluzione francese, Impero napoleonico)
in cui la Spagna si trovò, suo malgrado, coinvolta. E di fronte all'importanza
di quel grande rinnovamento morale e culturale poco importa che la lirica e
l'epica siano rimaste indietro, legate ancora ai modi barocchi o troppo vincolate
a quelli arcadici; sicché, fra i moltissimi poeti del secolo, uno solo
merita di essere ricordato, il languido e a momenti preromantico J. Meléndez
Valdés (1754-1817).
Letteratura: Romanticismo e postromanticismo
Reinseritasi ormai nell'Europa, la Spagna nei sec. XIX e XX dovette seguirne,
sia pure a modo suo, le vicende politiche, sociali e culturali. Certo, le reazioni
tradizionaliste vi furono più forti, forse, che in altri Paesi, meno
condizionati da glorie passate; il che spiega le molte guerre civili combattute
nella penisola, dal 1808 (invasione napoleonica) al 1936-39, e fenomeni pressoché
inauditi, per la loro ostinata persistenza, come l'integralismo carlista. E
quando la minoranza liberale riuscì a imporsi (rivoluzione del 1868,
prima effimera repubblica del 1873, seconda repubblica del 1931-36), essa venne
presto sopraffatta non solo da un'estrema destra sempre agguerrita, ma anche
da un'estrema sinistra anarchica, non meno utopistica e integralistica. Ciò
tuttavia non significa che la Spagna sia diversa dal resto d'Europa. La storia
culturale e artistica dimostra precisamente il contrario, cioè la sincronia
dei moti, delle idee e dei gusti. A parte gli esiti singoli, infatti, non c'è
dubbio che la letteratura spagnola del sec. XIX attraversò, nelle sue
grandi linee, le stesse tre fasi europee: l'iniziale neoclassicismo, eredità
dell'illuminismo settecentesco, non scevro peraltro di presentimenti romantici;
il romanticismo, trionfante soprattutto dagli anni Venti ai Sessanta ca.; e
il realismo positivista, dominante in pratica fin verso la fine del secolo.
I corrispondenti generi preferiti furono: il saggio, la poesia civile e didattica,
la narrativa e il teatro di costume (nella prima fase), la lirica “di
sentimento personale, effusivo”, il dramma e il romanzo storici (seconda
fase); il romanzo realistico e sociale e il teatro di idee e problemi etico-sociali
(terza fase). A ciascuno di essi, puntualmente, si devono riferire nomi spagnoli.
Con inevitabile sommarietà e sempre salvi, ripetiamo, gli esiti singoli,
ecco i più significativi. Nella prima fase i saggisti e poeti J. M. Blanco
White (1775-1841), M. J. Quintana (1772-1857), A. Lista y Aragón (1775-1848),
J. J. de Mora (1783-1864); il saggista A. Alcalá Galiano (1789-1865);
i commediografi F. Martínez de la Rosa (1787-1862), M. E. de Gorostiza
(1789-1851) e M. Bretón de los Herreros (1796-1873); prosatori quali
J. T. de Trueba y Cossío (1799-1835), S. Estébanez Calderón
(1799-1867), R. de Mesonero Romanos (1803-1882) e altri, interessati ai costumi
da punti di vista oscillanti fra il morale e il pittoresco, come in altro campo
l'intermezzista andaluso J. I. González del Castillo (1763-1800). Seconda
e sicuramente più brillante fase: lirici come J. de Espronceda (1808-1842)
– certo il più importante, insieme a M. J. de Larra (1809-1837),
della sua generazione –, M. de Cabanyes (1808-1833), G. Gómez de
Avellaneda (1814-1873), C. Coronado (1823-1911), N. Pastor Díaz (1811-1863)
e moltissimi altri, con una “seconda generazione” dominata da due
poeti di forte personalità: il sivigliano G. A. Bécquer (1836-1870)
e la galiziana R. de Castro (1837-1885); drammaturghi e autori di romances storici,
quali A. de Saavedra, duca di Rivas (1791-1865) – il cui Don Álvaro
o La Fuerza del sino (1835; Don Álvaro o La forza del destino) rimane
come testo esemplare del teatro romantico –, A. García Gutiérrez
(1813-1884), J. E. Hártzenbusch (1806-1880), J. Zorrilla (1817-1893),
autore soprattutto del Don Juan Tenorio (1844), E. Gil y Carrasco (1815-1846),
R. López Soler (1806-1836), e molti ancora; e infine saggisti e pubblicisti
quali J. Donoso Cortés (1809-1853), J. Balmes (1810-1848) e soprattutto
il già citato Larra, che meglio di ogni altro penetrò a fondo
nella viva problematica del suo tempo, analizzandola con implacabile lucidità
e col malinconico e civile umorismo che, prima di lui, solo Cervantes aveva
portato, nella rappresentazione degli eterni casi del mondo. Finalmente, la
terza fase presenta un romanziere e drammaturgo di statura europea, autore di
oltre un centinaio fra romanzi e drammi: il canario B. Pérez Galdós
(1843-1920) e, accanto a lui, narratori quali J. Valera (1824-1905), J. M. de
Pereda (1833-1906), P. A. de Alarcón (1833-1891), J. O. Picón
(1852-1923), J. Ortega y Munilla (1856-1922), Clarín (1852-1901), A.
Palacio Valdés (1853-1938) e V. Blasco Ibáñez (1867-1928),
con i quali il realismo narrativo penetra largamente nel sec. XX. Nello stesso
tempo, drammaturghi moderni come E. Gaspar (1842-1902), M. Tamayo y Baus (1829-1898),
il catalano A. Guimerá (1847-1924) e J. de Echegaray (1832-1916), e specialmente
pensatori, critici e maestri come i krausisti J. Sanz del Río (1814-1869),
F. Giner de los Ríos (1839-1915) e M. B. Cossío (1858-1935), il
cattolico M. Menéndez Pelayo (1856-1912), i liberali J. Costa (1844-1911),
Clarín, A. Ganivet (1865-1898), S. Ramón y Cajal (1852-1934),
il socialista F. Pi y Margall (1824-1901) e molti altri, mettevano a raffronto,
da vari punti di vista, i problemi spagnoli con quelli del mondo moderno, in
uno sforzo coraggioso di aggiornamento e di critica costruttiva. Altrettanto
vive e vitali appaiono, nell'insieme, le letterature regionali, e in particolare
la catalana, caratterizzata soprattutto da una mirabile rinascita poetica con
J. Verdaguer (1845-1902), M. Costa i Llobera (1854-1922), Mestres (1854-1936),
il già citato Guimerá, J. Alcover i Maspons (1854-1926), J. Maragall
i Gorina (1860-1911).
Letteratura: lineamenti generali della letteratura del XX secolo
Il sec. XX si apre con un fatto di enorme portata letteraria e morale: l'affermarsi
della Generazione del '98, composta da scrittori di potente originalità,
quali Miguel de Unamuno (1864-1936), poeta, saggista, romanziere e drammaturgo,
il “prosatore d'arte” e critico Azorín (1873-1967), il romanziere
P. Baroja (1872-1956), il romanziere e drammaturgo R. del Valle-Inclán
(1866-1936), il drammaturgo J. Benavente (1866-1954), il saggista R. de Maetzu
(1874-1936), e due lirici che avviarono una stupenda rinascita lirica per più
generazioni successive: J. R. Jiménez (1881-1958) e A. Machado y Ruiz
(1875-1939). Ciascuno a modo proprio, essi rappresentano in primo luogo la rivolta
antipositivistica (e antirealistica) che caratterizza il clima culturale europeo
di fine Ottocento; e senza alcun banale nazionalismo (i soliti tradizionalisti
li accusarono persino di antiispanismo, come da Feijoo in poi era sempre accaduto
ai più geniali innovatori e risvegliatori di coscienze), ne trassero
stimoli e idee per la fondazione di una vasta e multiforme letteratura novecentesca
di sostanza inconfondibilmente spagnola e – dato non meno importante –
di alto livello artistico. Per questo si può affermare che le lettere
ispaniche (nel più ampio senso del termine) nemmeno oggi hanno finito
di “fare i conti” con quei “padri” (o, se si preferisce,
“nonni”) novantottisti. Almeno tre altre generazioni sono finora
succedute a essi: quella degli anni Venti o delle avanguardie, detta Generazione
del '27; quella degli anni Quaranta, profondamente influenzata, in molti modi,
dalla guerra civile del 1936-39, e quella degli anni Sessanta, molto più
sensibile alle vicende artistiche e politico-sociali del mondo, non meno che
a quelle particolari della Spagna. In puntuale sincronia, all'estetica simbolista-modernista
sono succedute altre estetiche o ideologie: surrealista, neoclassicista, esistenzialista,
neorealista, socialista, sperimentalista ecc., alle quali anche gli scrittori
spagnoli si sono, più o meno, dimostrati ricettivi. Ciò però
non ha mai impedito, nemmeno a quelli rimasti in patria (e quindi sottoposti
a un regime politico tutt'altro che “liberale”, specie fra il 1923
e il 1931, e dal 1939 al 1975), di esprimere passioni, realtà e speranze
“spagnole”, come con tanto vigorosa efficacia avevano fatto i novantottisti
e i loro immediati successori ed epigoni, a cominciare dal filosofo J. Ortega
y Gasset (1883-1955), maestro dei novecentisti del ‘27, e da altri “intermediari”,
quali il romanziere-saggista R. Pérez de Ayala (1881-1962), il narratore-lirico
G. Miró (1879-1930), il saggista E. d'Ors (1882-1954) e il geniale “inventore”
neobarocco e proto-futurista R. Gómez de la Serna (1888-1963). Ecco ora
i nomi più sicuramente eminenti degli scrittori delle tre ultime generazioni.
Letteratura: la generazione del '27
Quella del ‘27 si presenta, dapprima, come una meravigliosa fioritura
lirica: gli andalusi F. García Lorca (1898-1936), R. Alberti (1902-1999),
V. Aleixandre (1898-1984), E. Prados (1899-1962), L. Cernuda (1902-1963), M.
Altolaguirre (1905-1959) e i castigliani P. Salinas (1892-1951), J. Guillén
(1893-1984), G. Diego (1896-1987), D. Alonso (1898-1990) e J. Larrea (1895-1980),
personalità diverse ma di statura poetica senza pari. Accanto a loro,
sempre con formazione di avanguardia, operano prosatori d’arte, narratori,
critici, saggisti, quali J. Bergamin (1897-1983), R. J. Sender (1902-1982),
M. Aub (1903-1972), F. Ayala (n. 1906), M. Bacarisse (1895-1931), A. Espina
(1894-1972), B. Jarnés (1888-1950), G. de Torre (1900-1972), R. Cansinos
Asséns (1883-1964), E. Giménez Caballero (1899-1988), E. Montes
(1897-1982), Corpus Barga (1892-1975), J. Arderíus (1890-1969), C. M.
Arconada (1900-1964). Stranamente, questa straordinaria generazione è
meno attirata dal teatro, in cui la novità più geniale del dopoguerra
è rappresentata dall’esperpento del "vecchio" R. del
Valle-Inclán (1866-1936), a parte qualche tentativo di "comico surreale"
da parte di E. Jardiel Poncela (1901-1952), E. Neville (1899-1967), M. Mihura
(1905-1977).
Letteratura: la letteratura del periodo franchista
Ma negli anni Trenta, lirici puri come i già citati Lorca e Alberti portano
anche nel teatro un inizio di rinnovamento, troppo presto stroncato dalla guerra
civile. Questa disperse la Generazione del ‘27, che, nella grande maggioranza
dei casi, continuò a operare nell’esilio; ma prima si erano già
manifestati nuovi e brillanti rincalzi lirici, quali M. Hernández (1910-1942),
L. F. Vivanco (1907-1975), L. Rosales (1910-1992), L. Panero (1909-1962), A.
Serrano Plaja (n. 1909), V. Crémer (n. 1910), G. Celaya (1911-1991) ecc.,
la cui opera confluì in quella della generazione successiva. Quest'ultima
non ebbe certo vita facile, nel clima repressivo degli anni Quaranta, ma espresse
da prima, instancabilmente, nuovi poeti quali D. Ridruejo (1912-1975), J. García
Nieto (1914-2001), B. de Otero (1916-1979), J. L. Hidalgo (1919-1947), J. Hierro
(n. 1922), R. Montesinos (n. 1920), C. Bousoño (n. 1923), G. Fuertes
(1918-1998), L. de Luis (n. 1918), R. Morales (n. 1919), V. Gaos (n. 1919) e
numerosi altri, per tentare poi anche la narrativa e il teatro, generi molto
più vigilati dalla censura. Questa comunque non poté impedire
la rivelazione di due capofila: il narratore C. J. Cela (1916-2002) e il drammaturgo
A. Buero Vallejo (1916-2000), confermati maestri negli ultimi decenni. Da Cela
discende almeno in parte la narrativa di tendenze sociali degli anni Cinquanta
e Sessanta che annovera autori quali M. Delibes (n. 1920), A. M. Matute (n.
1926), C. Laforet (n. 1921), G. Torrente Ballester (1910-1999), Á. M.
de Lera (1912-1984), J. M. Gironella (n. 1917), J. Bonet (n. 1917), P. de Lorenzo
(n. 1917), J. L. Martín Vigil, J. L. Castillo Puche (n. 1919), E. Quiroga
(1921-1995), R. Pinilla, L. M. Santos (1924-1964), I. Aldecoa (1925-1969), A.
López Salinas (n. 1925), J. Fernández Santos (1926-1988), R. Sánchez
Ferlosio (n. 1927), J. García Hortelano (1928-1992), A. Grosso (1928-1995),
C. Rojas (n. 1928), A. Prieto (n. 1930); mentre fra i più giovani sono
emersi J. Goytisolo (n. 1931), H. Vázquez Azpiri, J. Marsé (n.
1933), F. Umbral (n. 1935), J. Torbado (n. 1943), T. Moix (n. 1943). Nel teatro,
dopo A. Buero Vallejo (1916-2000), che resta la personalità più
forte e compiuta del dopoguerra, buone affermazioni hanno portato A. Sastre
(n. 1926), drammaturgo apertamente impegnato, L. Olmo (1922-1994), C. Muñiz,
J. Salom (n. 1925), A. Gala (n. 1937), J. Rodríguez Méndez (n.
1925), A. Diosdado (n. 1938), J. Rodríguez Budel, J. M. Recuerda (n.
1926) e altri, mentre la più facile commedia di divertimento, di blanda
critica sociale o apertamente umoristica, è coltivata, tra gli altri,
da A. Paso (1926-1978), J. J. Alonso Millán, C. Llopis, Jaime de Armiñán
(n. 1935) ecc. Attivi e numerosi sono infine, sulla strada aperta dalla Generazione
del ‘98, i pensatori, critici e saggisti delle più diverse e aggiornate
tendenze: dai vecchi storici del passato spagnolo, tra cui A. Castro (1885-1972),
C. Sánchez Albornoz (1893-1984), J. Vicéns Vives e i loro discepoli,
ai continuatori più o meno diretti del pensiero orteghiano, tra cui J.
Marías (n. 1914), P. Laín Entralgo (1908-2001), J. A. Maravall
(1911-1986), F. Vela (1888-1960), P. Garagorri (n. 1916), J. Ferrater Mora (1912-1991),
M. Zambrano (1907-1991), M. Granell (1906-1993), X. Zubiri (1898-1983), R. Xirau
(n. 1924), J. Gaos (1902-1969); dai cattolici J. L. Aranguren (1909-1996), P.
Sainz Rodríguez (1898-1986), J. M. González Ruiz, J. Ruiz Giménez,
J. Lozano (n. 1930) ecc., ai positivisti e marxisti E. Tierno Galván
(1918-1986), M. Sacristán (1925-1985), C. Castilla del Pino (n. 1922),
C. París ecc., fino a una schiera sempre più folta di storici
del mondo moderno e contemporaneo che comprende M. Tuñón de Lara
(1915-1997), M. Artola (n. 1923), R. de la Cierva, economisti come R. Tamames
(n. 1933), sociologi, critici letterari e artistici, pubblicisti, antropologi
come J. Caro Baroja (1914-1995) ecc.
Letteratura: la letteratura postfranchista
Dalla fine degli anni Settanta la letteratura spagnola ha sperimentato in modo
frenetico, data la situazione di orgogliosa marginalità in cui è
stata costretta nei lunghi anni del franchismo, ogni modello, forma e tendenza
della scrittura contemporanea. Durante gli anni Ottanta si riscoprono i temi
politici, la letteratura erotica, la narrativa di genere (quella rosa o quella
nera), spesso di qualità. Si restituisce agli esiliati, da M. Zambrano
a M. Andujar (n. 1913), da J. Gil-Albert (1904-1994), a R. Alberti, la considerazione
sottratta loro dal franchismo. Si finanziano - da canali istituzionali - compagnie
e collettivi di teatro "indipendente"; la qual cosa avvantaggerà
in modo particolare la drammaturgia catalana, assai avanti in iniziative del
genere. Si intensifica l’attività editoriale, libera finalmente
da censura e stimolata da un pubblico avido di novità. Coesistono, in
questo periodo, cinque o sei gruppi generazionali. Sono, in primo luogo, ancora
influenti i grandi nomi della Generazione del ‘27, come R. Alberti che
negli anni Novanta ha pubblicato una lunga serie di testi autobiografici, saggi,
articoli e poemi riuniti nei due volumi di La arboleda perdida (L'albereto perduto),
F. Ayala, J. López Rubio (1903-1996), R. Chacel (1898-1994). Accanto
a essi, in una posizione più incisiva e attivamente propositiva, troviamo
i rappresentanti della prima grande generazione del dopoguerra, da G. Torrente
Ballester (1910-1999) al già citato C. J. Cela, vincitore nel 1989 del
Premio Nobel, e M. Delibes (n. 1920). La loro produzione è di altissimo
livello, per ricerca stilistica e immaginazione creativa; probabilmente quanto
di più prezioso e di sicuramente duraturo si produca oggi in campo narrativo.
Di Torrente Ballester ha visto la luce una splendida serie di romanzi, da La
rosa de los vientos (1984; La rosa dei venti) a Yo no soy yo, evidentemente
(1987; Non sono me stesso, evidentemente) Filomeno a mi pesar (1988; Ahimè
sono Filomeno), Crónica del rey pasmado (1989; Cronaca del re stupito),
La boda de Chon Recalde (1995; Il matrimonio di Chon Recalde). Di Delibes si
segnalano capolavori come Los Santos inocentes (1981; I santi innocenti), Cartas
de amor de un sexagenario voluptuoso (1983; Lettere d'amore di un sessantenne
voluttuoso), Señora de rojo sobre fondo gris (1991; Signora in rosso
su uno sfondo grigio), Diario de un jubilado (1995; Diario di un pensionato),
He dicho (1997; Ho detto), El hereje (1999; L'eretico). Di Cela, Mazurca para
dos muertos (1983; Mazurca per due morti), Cristo versus Arizona (1988), La
cruz de San Andrés (1994), El asesinato del perdedor (1994; L'assassinio
del perdente), Madera de Boj (1999; Legno di bosso). In poesia, dopo la morte
di G. Celaya (1911-1991), B. de Otero (1916-1979), V. Aleixandre (1898-1984)
e L. Rosales (1910-1992), sono J. Hierro (n. 1922) - con Agenda (1991) e Cuaderno
de Nueva York (1998) - e C. Bousoño - con due importanti sillogi come
Metáfora del desafuero (1988; Metafora del sacrilegio), e El martillo
en el yunque (1997; Il martello sull'incudine) - i maestri venerati dalla lirica
attuale, mentre in campo saggistico l’attenzione si disloca su J. Marías
(n. 1914) e P. Laín Entralgo (1908-2001). Tra gli scrittori del dopoguerra
va incluso J. Semprún (n. 1923), esule in Francia e deportato in Germania
per aver partecipato alla resistenza francese. Esponente della Spagna postfranchista
come ministro della cultura nel governo Gonzales (1988-1991), ha scritto in
lingua francese, tra gli altri, i libri L’evanouissement (1967; Evanescenza),
Netchaiev est de retour (1987; Il ritorno di Netchaiev), ispirati all’antifranchismo
e alle sue esperienze di prigioniero, L’écriture et la vie (1994),
Mal et modernité (1995) e Se taire est impossible (1996; Tacere è
impossibile). Altro autore importante come ponte per la generazione successiva
è infine F. Nieva (n. 1927), artista integrale, poeta, drammaturgo (tra
gli ultimi eccellenti lavori citiamo Oceánida, 1996, e Centón
de teatro, 1997, Centone teatrale) e ora anche romanziere (con El viaje a Pantaélica,
1994, Viaggio a Pantaèlica e La llama vestida de negro, 1995, La fiamma
vestita di nero) in grado di combinare sperimentalismo e classicismo, modelli
tradizionali e linguaggi moderni, poesia e tecnologia. A questo gruppo di maestri
fanno subito seguito i discepoli eccellenti, come i romanzieri J. García
Hortelano (1928-1992), J. Benet (1927-1993), autore di un ciclo di romanzi memorabili
sulla guerra civile (Herrumbrosas lanzas, 1983, 1985, 1986, Lance arruginite),
il poeta J. Gil de Biedma (1929-1990), - tutti e tre prematuramente scomparsi
dalla scena letteraria e a loro volta guide preziose per i romanzieri e i poeti
più giovani - e via via tutti coloro che hanno occupato una posizione
di rilievo nella prosa e nella lirica degli anni Sessanta. In campo narrativo
spiccano i nomi dei neorealisti R. Sánchez Ferlosio (n. 1927) con una
prosa sempre più meditativa e apocalittica, e J. Marsé (n. 1933)
con El amante bilingüe; quelli di A. M. Matute (n. 1926) e C. Martín
Gaite (1925-2000) con la loro letteratura di testimonianza e di frontiera tra
realismo sociale e realismo magico - da La torre vigía (1971; La torre
d'osservazione) della prima a Lo raro es vivir (1996; L'assurdo è vivere)
della seconda -; quello di J. Goytisolo (n. 1931), per la sua ferma coscienza
critica (da Makbara, 1980 a El sitio de los sitios, 1995, Il luogo dei luoghi).
In campo poetico sono senz’altro esemplari i tracciati poetici di J. A.
Valente (1929-2000) - da Material memoria, 1979, a Nadie, 1996, Nessuno - C.
Rodríguez (1934-1999) - con Desde mis poemas, 1983, Dalle mie poesie
- A. González (n. 1925), J. A. Goytisolo (1928-1999). Irrompono infine
i Novísimos, nove giovani poeti spagnoli - alcuni dei quali, come F.
de Azúa (n. 1944), V. Molina Foix (n. 1946), M. Vázquez Montalbán
(n. 1939), A. M. Moix (n. 1947), offriranno contributi eccellenti anche in prosa
- presentati dal critico J. M. Castellet come la nuova proposta lirica della
Spagna degli anni Settanta.
Archeologia
Ampi sono i ritrovamenti dell'Età del Ferro, in cui comparve la ricca
civiltà iberica, ampiamente diffusa nella Spagna dell'Est e del Sud.
La civiltà greca è testimoniata soprattutto ad Ampurias, dove
è stato scavato – accanto alla più tarda città romana
di Emporiae – l'abitato greco della Néa Pólis con l'agorá,
edifici pubblici e case private; da Ampurias vengono pregevoli vasi greci figurati
La presenza dei Fenici e poi dei Cartaginesi è documentata da alcune
necropoli, tra cui quella di Cádice (città che sembra conservare
l'impianto urbanistico fenicio-punico) e di Ibiza nelle Baleari (dove il santuario
rupestre di Cueva d'es Cuyram ha dato molte statuette fittili); i ritrovamenti
consistono in statuette, avori, amuleti, paste vitree, gioielli. Notevolissimi
sono i resti della Spagna romana. Centri archeologici sono, oltre che Emporiae,
Sagunto, con resti iberici nel “Castillo” e un bel teatro romano;
Italica (anfiteatro, terme, case, oltre a vari reperti esposti al Museo di Siviglia);
Numanzia, dove i resti della città romana, interessante per il suo impianto
urbanistico, si sovrappongono a quelli della città celtiberica (materiali
al Museo di Soria, tra cui interessanti vasi dipinti). Importanti complessi
monumentali sono a Tarragona (Tarraco), che conserva il suo imponente circuito
di mura di due diverse epoche e i resti del Palacio de Augusto, e a Mérida
(Emerita Augusta), con teatro, anfiteatro, lungo ponte sulla Guadiana (in parte
rifatto) e arco di Traiano. Archi onorari sono anche a Bará sulla via
romana da Barcellona a Tarragona, e a Medinaceli (Oscilis); un grande palazzo
romano è stato scavato a Clunia Sulpicia, le cui rovine sono presso Coruña
del Conde nella Vecchia Castiglia. A Carmona (Carmo) è un'importante
necropoli romana, a Vich (Ausa) un tempio molto alterato. Imponenti opere di
ingegneria dei sec. I e II d. C. sono i ponti di Salamanca (in parte rifatto)
preceduto da un toro iberico, di Martorell presso Barcellona con archi trionfali,
e quello famoso di Traiano sul Tago ad Alcántara, con arco trionfale
al centro e piccolo tempio all'imbocco. Più numerosi che in altre province
romane sono gli acquedotti (chiamati talora “ponti del diavolo”
o “dei miracoli”) tra cui quelli di Calahorra (Calagurris Nassica,
patria di Quintiliano), di Siviglia, di Chelvez presso Valencia con ponte a
tre arcate; di Tarragona, di Mérida con grandi bacini d'acque; il maggiore
è a Segovia, con lungo e alto ponte di pietra a più ordini di
arcate. Della fine del sec. III e del sec. IV sono le mura costruite per resistere
alle invasioni barbariche: resti imponenti si conservano a Saragozza (Caesaraugusta),
a Barcellona (Barcíno, dove sono anche avanzi monumentali di terme e
di altri edifici pubblici e privati) e soprattutto a Coria (Caurium) e a Lugo
(Lucus Augusti); le cinte sono fortificate da solidi torrioni. Nel campo delle
arti figurative (statue, rilievi, ritratti; notevoli anche i mosaici) la Spagna
è tra le province romane più vicine all'arte di Roma, soprattutto
per le opere della Betica e per Mérida, che fu sede di officine scultoree;
in qualche altra regione sono più evidenti persistenze iberiche e celtiche.
Di notevole importanza è anche il patrimonio epigrafico.
Arte: dal periodo paleocristiano al X secolo
Scarse sono le testimonianze dell'architettura paleocristiana, mentre più
significativi sono, nei sec. IV e V, gli esempi offerti dalla scultura (statue
del Buon Pastore, sarcofagi scolpiti) e dai mosaici (Tarragona, Maiorca, Huesca),
alcuni dei quali rivelano influssi nordafricani. Durante il periodo visigotico
(sec. V-VII) il confluire di influssi nordafricani (soprattutto nella Betica)
e bizantini portò al lento sviluppo di un'arte preromanica spagnola.
Ai sec. V-VI risalgono le chiese di Aljezares (Murcia) e S. Pedro de Alcántara
(Málaga); più numerose quelle del sec. VII, caratterizzate da
una massiccia struttura muraria e da absidi rettangolari (S. Juan de Baños
a Palencia; S. Pedro de la Mata a Toledo; S. Pedro de la Nave a Zamora). La
scultura nel periodo visigotico ebbe una funzione esclusivamente decorativa,
connessa all'architettura, con prevalenza di motivi geometrici e presenza di
elementi orientali, che si notano sia nei sarcofagi (da Burgos, Oviedo ecc.)
sia in alcuni tipi di capitelli. Elevato il livello qualitativo delle arti minori,
soprattutto dell'oreficeria, nella quale si nota il progressivo trasformarsi
del gusto barbarico sotto gli influssi bizantini (tesori di Guarrazar e di Torredonjimeno,
i cui esemplari sono oggi nei musei di Madrid, Parigi, Barcellona, Cordova).
L'invasione araba (sec. VIII) divise in due parti la Spagna , con importanti
conseguenze culturali e artistiche. Negli Stati cristiani del Nord la tradizione
visigotica si sviluppò nell'arte asturiana, con manifestazioni destinate
poi a confluire nel più vasto ambito del romanico. Il più antico
esempio di arte asturiana è la chiesa di Santiañes de Pravia (774-783),
ma le sue più importanti manifestazioni si ebbero durante il regno di
Ramiro I (842-850), con le chiese di S. Maria de Naranco, S. Miguel de Lillo,
S. Cristina de Lena, tutte nei pressi di Oviedo. Queste chiese, coperte a volta,
con contrafforti e grandi finestre, presentano una decorazione scultorea di
tipo orientale e notevoli affreschi (importanti soprattutto quelli della chiesa
di S. Julián de los Prados). L'arte asturiana continuò, con manifestazioni
di minore importanza, fino al sec. X; l'oreficeria religiosa di questo periodo
si distingue per alcuni capolavori, conservati nella Camera Santa di Oviedo,
che ricordano il contemporaneo stile ottoniano. Nelle regioni meridionale della
Spagna , dominate da regni islamici, si sviluppò fino al sec. XV l'arte
moresca, con una straordinaria fioritura destinata a lasciare importanti tracce
anche dopo la riconquista cristiana nella cosiddetta arte mudéjar. Molti
degli edifici ispano-moreschi sono scomparsi a causa delle distruzioni operate
dalla Reconquista o di successive trasformazioni. I principali monumenti rimasti,
dalla moschea di Cordova (sec. VIII-X)all'Alhambra di Granada, agli Alcázar
di Siviglia e Toledo, appaiono di altissima qualità, anche se non si
può parlare in senso stretto di un'arte locale, dato che gli elementi
architettonici fondamentali appaiono simili a quelli degli altri Paesi arabi.
Notevolissimo fu l'apporto della cultura islamica nel campo delle arti minori:
nel mobilio, nella lavorazione dei metalli (niellati, cesellati), nelle armi
(Saragozza, Toledo, Granada), nel cuoio stampato (Cordova), nei tappeti, nei
vetri smaltati e dorati e soprattutto nelle famose maioliche smaltate a lustro
metallico. Nei sec. IX-XI, nei territori di dominazione musulmana fiorì
anche la cosiddetta arte mozarabica, cioè un'arte cristiana fortemente
permeata di elementi islamici, come si nota nell'uso dell'arco a ferro di cavallo.
Tra le varie chiese rimaste si ricordano S. Miguel de Escalada (León),
Santiago de Peñalba (León), S. Millán de la Cogolla (Logroño),
S. María de Melque (Toledo). Fiorente anche la produzione di codici miniati
(Apocalisse del Beato di Lievana, opera di Magio, sec. X).
Arte: dall'XI al XV secolo
Nel sec. XI iniziò lo sviluppo, nella Spagna settentrionale, del romanico,
legato agli sviluppi della Francia settentrionale, che diede unità alle
manifestazioni artistiche dei regni cristiani spagnoli. Caratterizzato dall'impiego
dell'arco a tutto sesto, dalla pianta basilicale cruciforme, dalla copertura
con volta a botte, dalle absidi semicircolari, il romanico fu favorito nella
sua diffusione dai pellegrinaggi a Santiago de Compostela, sul cui percorso
sorsero la cattedrale di Jaca (Aragona), le chiese di S. Salvador de Leyre (Navarra),
di S. Isidoro di León e la stessa cattedrale di Santiago nella Galizia.
Esempi di un romanico più vicino alle forme provenzali si ebbero in Catalogna
(S. Pedro de Roda, S. Vicente de Cardona). In origine le chiese romaniche erano
ampiamente affrescate (ciclo del Panteón de los Reyes in S. Isidoro di
León). Nel Museo de Bellas Artes de Cataluña di Barcellona si
trovano dipinti murali provenienti da S. Quirico di Pedret, S. Maria di Tahull,
S. Maria d'Aneu ecc.; al Prado di Madrid affreschi da S. Baudilio di Berlanga,
dalla Ermita de la Cruz di Maderuelo. Nel campo della scultura, accanto a quella
decorativa (capitelli floreali o istoriati, rilievi di portali ecc.), si affermò
la statuaria devozionale in legno policromo. Lo stile romanico non mancò
spesso di arricchirsi di elementi della tradizione moresca e mozarabica (cattedrali
di Zamora e di Salamanca; basilica di S. Vicente d'Ávila) dando luogo
fin dal sec. XII al formarsi dei primi esempi di arte mudéjar, che rappresenta
appunto l'interpretazione spagnola degli stili romanico prima, gotico successivamente.
Con la fondazione del monastero di Moreruela (Zamora, 1131) venne introdotta
in Spagna l'austera architettura cistercense, caratterizzata dall'impiego dell'arco
a sesto acuto, dalle volte a crociera, dalle absidi quadrangolari, dall'accentuato
verticalismo. Le prime costruzioni propriamente gotiche, pur nella persistenza
di elementi romanici, sono le cattedrali di Ávila e di Cuenca (sec. XII-XIII),
ispirate al gotico borgognone e modelli per le tre grandi cattedrali successive
di Burgos, Toledo e León, tutte erette nel corso del sec. XIII. Nei sec.
XIV e XV il gotico in Castiglia assunse una caratterizzazione regionale che
si manifestò con una particolare esuberanza decorativa (si parla infatti
di gotico mudéjar), che prelude al plateresco. In Catalogna, Aragona
e Valencia invece, regioni più indipendenti dagli influssi della Francia
settentrionale e più legate culturalmente alla Provenza e all'Italia,
vi fu dapprima un attardamento su forme romaniche (cattedrali di Lérida
e Tarragona), quindi prevalsero, nell'ambito del gotico, strutture più
semplici e proporzionate (sec. XIV: cattedrali di Barcellona, Gerona, Palma
di Maiorca, Manresa, Tortosa; chiesa di S. Maria del Mar). Fiorente durante
tutta l'età gotica fu la scultura, sia decorativa sia funeraria. Fra
i maggiori artisti può ricordarsi maestro Bartolomé, attivo fra
i sec. XIII-XIV nella cattedrale di Tarragona. La Catalogna, grazie ai contatti
con la Francia meridionale e l'Italia, fu aperta agli influssi della pittura
toscana, soprattutto senese (Ferrer Bassá, Ramón Destorrens, fratelli
Serra), ma anche nella Castiglia e nel León si diffuse la lezione italiana.
Nel corso della prima metà del sec. XVI l'arte spagnola conobbe un grande
sviluppo e una profonda evoluzione. Le due regioni nelle quali massimo fu lo
splendore artistico sono la Castiglia e l'Andalusia, per preminenza politica
e florida condizione economica. In architettura lo stile predominante fu il
plateresco, alla cui formazione contribuirono elementi del gotico mudéjar
e del Rinascimento italiano e che fu caratterizzato da una straordinaria vivacità
decorativa. Le città in cui più notevoli sono le testimonianze
di questo stile sono Burgos, León, Salamanca, Segovia, Toledo, Valladolid,
dove furono attivi i maggiori esponenti dell'architettura del tempo: A. De Covarrubias,
R. G. de Hontañón, L. Vázquez. Solo nella seconda metà
del secolo, con l'avvento al trono di Filippo II, e in corrispondenza del purismo
controriformistico, venne introdotto massicciamente un severo stile classicista,
di derivazione manierista, che trovò il suo massimo esempio nell'Escorial
di J. De Herrera. Un processo analogo a quello dell'architettura si svolse nel
campo delle arti figurative, che conobbero un grande rigoglio. La scultura si
sviluppò in varie scuole locali, tutte variamente sensibili ad apporti
italiani e francesi, sempre però rielaborati in un linguaggio nazionale
di grande esuberanza ornamentale. Maestri italiani come Domenico di Alessandro
Farnese e, in seguito, Leoni Pompeo e Leone Leoni, attivi presso la corte, esercitarono
una sensibile influenza su molti artisti locali, mentre vari scultori spagnoli
appresero in Italia le basi della loro arte: fra i maggiori, A. Berruguete (Toledo),
B. Ordoñez (Barcellona), D. de Siloé (Granada). Nel campo della
pittura determinanti furono gli influssi fiamminghi e italiani. L'attività
in Andalusia di personalità come P. de Campaña, F. Sturm e F.
Frutet, assieme ai viaggi nei Paesi Bassi compiuti da artisti spagnoli, favorirono
dapprima il predominio della corrente ispano-fiamminga, rappresentata da L.
Dalmau e, in Castiglia (dove l'influsso fiammingo fu più durevole), da
J. Inglés, dal Maestro di Sopetrán, da J. de Flandes, corrente
che fu anche fondamentale per la formazione dei due maggiori pittori del periodo:
B. Bermejo e P. Berruguete. Successivamente prevalsero però gli orientamenti
italianeggianti per la mediazione di artisti quali J. de Borgoña (Toledo),
F. de Llanos e F. Yáñez de la Almedina, formatisi in Italia e
sensibili a influssi leonardeschi e raffaelleschi. La costruzione dell'Escorial
richiamò numerosi artisti di varia provenienza ma soprattutto i manieristi
italiani L. Cambiaso, P. Tibaldi, F. Zuccari, che confermarono il predominio
italiano alla corte di Filippo II. Tuttavia i due massimi pittori attivi in
Spagna nella seconda metà del sec. XVI furono due stranieri: El Greco,
che non ebbe però che pochi seguaci, e A. Moro, che contribuì
all'affermazione del realismo nella ritrattistica. Da segnalare, in età
rinascimentale, anche la fioritura delle arti minori, particolarmente dell'oreficeria
religiosa e del ricamo. In Castiglia alla fine del sec. XV si eseguirono infatti
ricami di grande fastosità ornati di perle e pietre preziose (pianeta
di Isabella la Cattolica, manto della Vergine del Sagrario), secondo un gusto
decorativo che si accentuò nel Cinquecento e nel Seicento con il ricamo
a forte rilievo, il lavoro di applicazione di velluto su raso a colori vivaci
e la profusione di lustrini d'oro e d'argento.
Arte: dal XVI secolo alla seconda guerra mondiale
Nei sec. XVI-XVII-XVIII conobbe una grande fioritura anche l'arte vetraria.
La produzione catalana, caratterizzata dalla decorazione a smalto, si distingue
per i colori densi e vivaci e gli schemi decorativi ispano-moreschi. Tra le
più tipiche forme di recipienti si ricordano l'almorrata (a più
becchi), il porrón (bottiglia-bicchiere con lunghissimo becco), il cantír
o cantaro (bottiglia-bicchiere con due becchi opposti e manico superiore ad
anello), tutti prodotti in Catalogna e a Valencia; caratteristici dell'Andalusia
gli jarritos, vasi bassi e panciuti con lungo collo a tromba e manici ornati
a creste. Col finire del sec. XVI si posero le premesse dello sviluppo della
nuova arte barocca, che ebbe in Spagna lunga vitalità e durata prolungandosi
fino alla fine del sec. XVIII, sia pure attraverso diverse fasi. Massimo centro
culturale e artistico continuò a essere Madrid, sia per la presenza stimolante
della corte, grande committente e collezionista, sia per il proseguimento dei
lavori dell'Escorial. Accanto alle grandi realizzazioni religiose (chiese e
conventi) e pubbliche (Palazzo della Granja, Palazzo Reale di Madrid, ampliamento
del Prado), notevoli furono le sistemazioni urbanistiche, come quella della
Plaza Mayor di Madrid (J. Gómez) e, nel sec. XVIII, di Aranjuez. Tra
le scuole regionali in cui si differenziò il barocco, celebri quelle
di Madrid, di Granada, di Galizia (D. de Andrade) e soprattutto quella di Salamanca
dove furono attivi i Churriguera, dal cui stile di straordinaria fastosità
ed esuberanza prese origine una vera e propria corrente architettonica. Anche
la scultura secentesca fu in larga prevalenza religiosa e in ossequio alla precettistica
controriformista si fece realista e patetica, con risultati sovente deteriori.
Le scuole più vivaci furono quelle di G. Fernández, a Valladolid,
e quella sivigliana, mentre più originale e isolata fu l'attività
di A. Cano. Di altissimo livello fu la pittura del sec. XVII. L'influsso italiano,
in particolare di Caravaggio, provocò il nascere di una scuola realistica,
caratterizzata da un vivace senso luministico, che ebbe tra i suoi maggiori
esponenti J. Ribera, che fu attivo a Napoli. D. Velázquez fu tra i protagonisti
della pittura secentesca europea e diede vita, a Madrid, a un'attivissima scuola.
Altri artisti madrileni furono fortemente influenzati dalla feconda attività
spagnola di L. Giordano. In certa misura separata è la scuola sivigliana,
che in F. de Zurbarán ebbe un artista di profonda e austera religiosità
e in B. E. Murillo un felice esponente della pittura religiosa popolareggiante.
Il sec. XVIII vide il proseguire, più stanco, dei grandi motivi dell'arte
secentesca, sia nell'architettura sia nella decorazione. Solo con la seconda
metà del secolo (fondazione dell'Accademia di S. Fernando a Madrid, 1752)
venne lentamente introducendosi il gusto neoclassico, che incontrò tuttavia
molte resistenze e restò a lungo limitato alla capitale (Palazzo del
Prado, chiesa di S. Francisco el Grande). Anche nel campo della scultura gli
interessi neoclassici furono accentrati a Madrid, mentre gli altri centri spagnoli
restarono legati al decorativismo barocco. La seconda metà del sec. XVIII
costituì dunque soprattutto un periodo di transizione verso la piena
affermazione nel neoclassico, avvenuta soltanto nell'Ottocento. Assai stimolante,
per ciò che riguarda la pittura, la presenza di G. Tiepolo e dei suoi
figli, di C. Giaquinto e soprattutto di A. R. Mengs, che lasciò larga
traccia. Del tutto isolata invece la potente personalità di F. Goya,
esempio di un profondo rinnovamento stilistico e morale. Per tutto il sec. XIX
e l'inizio del XX l'architettura fu caratterizzata da una coesistenza di orientamenti
stilistici, da quelli neoclassici e accademici a quelli eclettici, di gusto
romantico. Modesta nel complesso la scultura dove, dopo una fase accademica,
si affermò il realismo, in parte di ispirazione tradizionale. In pittura
si svilupparono correnti di influsso romantico, quali la pittura di storia e
quella di paesaggio, mentre ebbero grande diffusione anche il disegno e la litografia,
di derivazione goyesca. Solo marginale fu l'influsso dell'impressionismo (J.
Sorolla, A. de Beruete ecc.).
Arte: il Novecento
Mentre la cultura in Spagna restava in larga misura ancorata a un sostanziale
provincialismo, all'inizio del XX secolo alcuni pittori spagnoli, quali P. Picasso,
J. Gris, J. Miró, S. Dalí, si posero fra i massimi protagonisti
della grande rivoluzione artistica del periodo. Fino alla seconda guerra mondiale
sporadici furono i tentativi di rinnovamento culturale: già aperta alle
avanguardie europee appare l'opera pittorica di J. de Echevarria, B. Palencia,
D. Velázquez Díaz, mentre, nel campo architettonico, fondamentale
fu la conoscenza del Bauhaus grazie all'esposizione tenuta a Madrid nel 1931
da W. Gropius.
Soprattutto nel secondo dopoguerra però si constatò, da parte
delle giovani generazioni, una vivace reazione antiaccademica insieme al tentativo
di rendere partecipe la Spagna delle esperienze internazionali di maggior livello.
Nel 1948 si verificarono eventi significativi e determinanti per lo sviluppo
dell'arte spagnola d'avanguardia, quali la formazione del Gruppo delle Canarie,
l'esposizione di arte astratta di Saragozza, la fondazione della rivista barcellonese
Dau al Set, l'apertura della Scuola d'Altamira, di tipo antisurrealista. Da
questi movimenti hanno preso il via vari gruppi indirizzati a forme espressive
di origine astratta accomunati da una componente tipicamente spagnola di severa,
forte drammaticità (E. Chillida, M. Millares, A. Saura, A. Tapies, F.
Farreras ecc.). Per quanto riguarda l'architettura, nel primo Novecento originale
fu l'esperienza di A. Gaudí a Barcellona, nella quale all'impiego di
tecniche moderne si contrappone un ripiegarsi mistico e quasi visionario su
esperienze culturali del passato. Nel 1929, in occasione dell'Esposizione Internazionale
di Barcellona, sono stati costruiti alcuni edifici emblematici del Movimento
Moderno, fra cui il più noto è il padiglione di L. Mies van der
Rohe. Nel 1930 J. L. Sert ha fondato a Barcellona, insieme a S. Yllscas, il
GATCPAC (Gruppo di Artisti e Tecnici Catalani per il Progresso dell'Architettura
Contemporanea), tramutatosi poi in GATEPAC come sezione spagnola del CIRPAC
(Comitato Internazionale per la Risoluzione dei Problemi dell'Architettura Contemporanea).
Il gruppo ha organizzato manifestazioni, pubblicazioni sull'architettura razionalista
e ha dato vita con Le Corbusier al piano Macia (1932-34) per il nuovo assetto
urbanistico di Barcellona. La guerra civile ha poi bloccato le istanze moderniste
a favore di una ripresa di modelli tradizionali con soluzioni spesso pittoresche
(Esquivel, Siviglia 1948, A. de la Sota; Cáceres 1954-58, J. L. Fernández
del Amo). Nel 1952 è nato il Gruppo R che ha ripreso i programmi del
GATEPAC. Ricordiamo a questo proposito i lavori di J. M. Martorell, O. Bohigas
e J. M. Sostres a Barcellona. A Madrid J. A. Corrales, R. Vázquez Molezún
e M. Sierra hanno seguito l'esempio statunitense e il modello di pianificazione
britannico. Negli ultimi anni del sec. XX l'architettura si è sviluppata
essenzialmente a Barcellona e a Madrid. La scuola di Barcellona, aperta ad istanze
progressiste, è legata alla borghesia illuminata ed emergente. Le Olimpiadi
di Barcellona del 1992 hanno offerto alla città un'occasione unica per
un riordino urbanistico nell'ambito metropolitano (Parc de la Vall d'Hebron,
1992; Paseo Marítimo de la Barceloneta, 1996, Auditorium, 1999, progettato
da J. R. Moneo), da segnalare inoltre la realizzazione del MACBA (Museu d'Art
Contemporani de Barcelona, 1990-1995) su progetto dell'architetto R. Meier,
con un impianto spiccatamente razionalista e una struttura dall'aspetto brillante
e luminoso ideale per ospitare la produzione artistica contemporanea della città,
ormai di fama internazionale e le due torri dell'Hotel Arts (1992), simbolo
della recente apertura di Barcellona al mare. A Madrid invece l'architettura
è più tradizionalista, legata alla committenza pubblica (Stazione
ferroviaria di Atocha, 1990, realizzata da Moneo). Ricordiamo anche il progetto
Cartuja 93 a Siviglia (rivalutazione di aree periferiche al servizio della cultura
e del tempo libero) e in Catalogna l'apporto e l'esempio di R. Bofill e dello
Studio PER.
Musica
La prima testimonianza di una tradizione musicale specificamente spagnola è
il canto cristiano liturgico alquanto impropriamente denominato mozarabico (sec.
V-XI). In seguito va ricordato lo sviluppo di una polifonia spagnola (sec. X-XII),
con le rilevanti composizioni giunteci nel Codex Calixtinus, e, in ambito monodico,
la fioritura delle cantigas, una delle tradizioni più rilevanti nel quadro
della monodia europea del sec. XIII. Dopo le testimonianze polifoniche dei sec.
XIII-XIV, trasmesse dal Códice de Las Huelgas, non si conoscono composizioni
spagnole della prima metà del sec. XV: nella seconda metà invece
si pongono le premesse della grande fioritura della musica rinascimentale, con
la produzione di pagine sacre, villancicos e romances dovuta a J. del Encina
(1468-1529) e a numerosi altri compositori presenti nel celebre Cancionero de
Palacio e in altri cancioneros. Le personalità dominanti del Cinquecento
sono C. de Morales (ca. 1500-1553), T. L. de Victoria (ca. 1550-1611) e F. Guerrero
(1528-1599), che vanno annoverati tra i protagonisti della musica europea di
quel secolo. Grande rilievo assume anche la musica per organo, con A. de Cabezón
(1510-1566) e la ricca fioritura di opere per vihuela, con L. de Milán
(ca. 1500-dopo il 1561), L. de Narváez (ca. 1500-dopo il 1555), A. de
Mudarra (ca. 1508-1580) e numerosi altri. Nel sec. XVII la vihuela decadde,
mentre si affermò la chitarra, specialmente con il compositore G. Sanz
(1640-1710); tra gli organisti emerse J. Bautista Cabanilles (1644-1712). Proseguì
la tradizione dei villancicos e dei romances e nacque una forma di teatro con
musica, la zarzuela (il nome deriva dal palazzo dove nel 1657 fu rappresentato
El golfo de las sirenas di P. Calderón de la Barca), con J. Hidalgo (ca.
1610-1685) e S. Durón (1650/60-ca. 1720), mentre rimase esclusa l'opera
italiana. Essa fu introdotta nel sec. XVIII per iniziativa della corte borbonica,
ma incontrò resistenze; in ambiente popolare fu preferita la tonadilla,
semplice e spesso di carattere satirico, coltivata da P. Esteve y Grimau (m.
1794), L. Misón (m. 1776), B. de Laserna (1751-1816). La figura emergente
in questo secolo, che, come il precedente, viene considerato di decadenza per
la musica spagnola, è quella di A. Soler (1729-1783); ma si deve ricordare
la significativa influenza dei due musicisti italiani vissuti a lungo in Spagna
, D. Scarlatti (nella prima metà del Settecento) e L. Boccherini (nella
seconda metà). Il più noto compositore spagnolo attivo all'estero
fu V. Martín y Soler (1754-1806). Grave si fece la decadenza della musica
spagnola nella prima metà del sec. XIX, in cui predomina l'influsso dell'opera
italiana, ravvisabile anche nel protagonista di uno dei momenti più felici
nella storia della zarzuela, F. A. Barbieri (1823-1894), accanto a cui vanno
ricordati F. Chueca (1846-1908), M. Fernández Caballero (1835-1906),
P. Arrieta y Corera (1823-1894), T. Bretón y Hernández (1850-1923),
R. Chapí y Lorente (1851-1909). Soprattutto negli ultimi due si fece
viva l'aspirazione a un teatro musicale spagnolo di carattere nazionale: di
tali istanze va considerato sostenitore soprattutto F. Pedrell (1841-1922),
la cui opera di compositore, didatta e studioso (in particolare del Rinascimento
e della musica popolare spagnola) esercitò una significativa influenza
sui compositori spagnoli della generazione successiva che raggiunsero fama europea:
I. Albéniz (1860-1909), E. Granados (1867-1916) e M. de Falla (1876-1946),
il maggior musicista spagnolo del Novecento. Accanto a loro, ma su un livello
nettamente inferiore, può essere ricordato J. Turina (1882-1949). L'influenza
di De Falla si avverte chiaramente in E. Halffter (1905-1989), mentre tra i
compositori spagnoli più attenti alle ricerche più avanzate del
secondo dopoguerra vanno ricordati C. Halffter Escriche (n. 1930) e L. de Pablo
(n. 1930). La tradizione della zarzuela ha trovato prosecutori in J. Serrano
(1873-1941), J. Guerrero (1895-1951), F. Moreno Torroba (1891-1982), autore
anche di fortunata musica per chitarra. Questo strumento ebbe costantemente
cultori in Spagna : si ricordano in particolare F. Sor (1778-1839) e F. Tarrega
(1825-1909). A parte vanno ricordati alcuni concertisti spagnoli di larga fama:
il violinista P. de Sarasate (1844-1908), il pianista R. Viñes (1875-1943),
il violoncellista P. Casals (1876-1973), il chitarrista A. Segovia (1894-1987).
Grande rilievo ha avuto nella vita musicale spagnola e nella stessa musica colta
europea, a partire dal sec. XIX, la tradizione popolare, soprattutto quella
andalusa del cante hondo e del flamenco.
Teatro
Dopo la caduta dell'Impero romano, durante il quale anche in Spagna , come nelle
altre province, erano in funzione numerosi circhi e teatri, la Chiesa impedì
per molti secoli ogni forma di rappresentazione e sopravvissero soltanto riti
e feste d'origine pagana che le autorità religiose cercavano a volte
di proibire e a volte di incorporare nelle loro cerimonie. Poi nelle zone sfuggite
alla dominazione dei Mori, si sviluppò, partendo come altrove dai tropi
del rituale cristiano, una forma di dramma liturgico caratterizzato ben presto
da complesse e sontuose strutture spettacolari (ne è ancor oggi testimonianza
la rappresentazione che si svolge annualmente per l'Assunzione nella chiesa
di Elche, su un testo del sec. XVI, ma con probabile riferimento a una tradizione
ancor più antica). Che questa forma di teatro si sia ben presto secolarizzata
è attestato dal codice di Alfonso X il Dotto (1221-84) che vietava a
preti e laici la partecipazione a juegos de escarnio e autorizzava rappresentazioni
per Natale, l'Epifania e Pasqua, ma solo sotto il diretto controllo delle autorità
ecclesiastiche. Nella prima metà del secolo successivo l'istituzione
della processione del Corpus Domini permise di affiancare agli intenti edificanti
propri di questa festa elementi tratti da forme di spettacolo popolare, fiorite,
in stato di semiclandestinità, in epoche precedenti (soprattutto per
opera dei juglares, giullari). Alcuni di questi elementi, soprattutto le esibizioni
pirotecniche e i finti combattimenti, entrarono ben presto nel cerimoniale di
corte in occasione di feste nuziali o di visite di personaggi illustri, mentre
i tornei cessavano di essere fatti d'arme per diventare avvenimenti spettacolari,
spesso ispirati a famosi romanzi cavallereschi, e altre forme teatrali, come
gli entremeses, servivano da svago ai potenti. Sorse così, verso la fine
del Quattrocento, un teatro di corte, nel quale alle preoccupazioni religiose
si mescolavano i nuovi ideali del Rinascimento, che ospitò drammi pastorali,
mitologici e cavallereschi spesso di notevole valore letterario. A corte veniva
occasionalmente accolta anche la compagnia dell'attore-autore Lope de Rueda,
il primo capocomico professionista spagnolo, che recitava le sue commedie e
i suoi pasos soprattutto nei villaggi e nelle piazze. Contemporaneamente (metà
del sec. XVI) giunsero in Spagna le prime compagnie italiane dell'Arte (importante
quella di Ganassa) che fornirono un modello di alta professionalità e
un solido schema organizzativo ampiamente imitato. Fu così che si formò
un vero e proprio teatro professionale (a opera di compagnie itineranti), che
trovò le sue prime sedi prendendo in affitto semplici cortili (corrales)
circondati da case, fin quando (a Madrid dal 1572) il monopolio delle rappresentazioni
teatrali non fu affidato a organizzazioni benefiche (come la madrilena Cofradía
de la Pasión) che resero permanenti due corrales de comedias. Essi consistevano
in un palcoscenico (a due piani con sommari elementi scenografici e poche semplici
macchine) proiettato verso il pubblico che prendeva posto nel patio (i cosiddetti
mosqueteros, gli spettatori più umili ma anche i più rumorosi),
su vari palchetti o (le donne) in un'apposita galleria. Le compagnie erano dirette
da un autor de comedias, cioè da un impresario-capocomico che acquistava
i copioni dagli scrittori, scritturava gli attori e stipulava i contratti con
i gestori dei corrales (co fradías o municipalità). Fu questo
il teatro spagnolo del secolo d'oro, frequentato da rappresentanti di tutte
le classi sociali e destinato soprattutto alle città che assorbivano
una quantità enorme di comedias, il che spiega la copiosissima produzione
di Lope de Vega o di Calderón de la Barca. Accanto a questo teatro professionale,
c'erano gli autos sacramentales che venivano rappresentati nelle piazze su apposite
impalcature in occasione del Corpus Domini e c'era un fiorente teatro di corte
(come all'interno del Buen Retiro) che ospitava spettacoli caratterizzati dall'impiego
di macchine complicate e da vistose trovate scenografiche. Dal teatro di corte
si sviluppò anche un genere particolare, la zarzuela, brevi opere d'argomento
mitologico sfarzosamente allestite, il cui successo coincise (nella seconda
metà del Seicento) con il rapido declino del teatro commerciale. Il Settecento
vide il trionfo dell'opera italiana (a corte e altrove), nonché la graduale
sostituzione di teatri permanenti agli antichi corrales. Si rappresentavano
commedie neoclassiche imitate dal francese, rifacimenti di testi del secolo
precedente, zarzuelas, melólogos (monologhi o dialoghi con accompagnamento
musicale), escenas mudas (pantomime pure con musica) e sainetes. L'Ottocento
fu, come altrove, il secolo del teatro borghese nelle sue varianti romantica
e realistica, e fu solo dopo il 1890 che si verificarono alcune importanti novità:
il clamoroso successo della zarzuela intitolata La verbena de la paloma (1894),
di R. de la Vega; il trionfo del género chico e l'apertura, a Barcellona,
del Teatre Intim di A. Gual, primo esempio in Spagna di teatro sperimentale
di tendenza simbolistica. Con il nuovo secolo la reazione antirealistica culminò
in un rinnovato interesse per il teatro dei fantocci e per il teatro d'ombre
(con copioni firmati dai maggiori scrittori dell'epoca) e nell'attività
svolta da M. Sierra come direttore, dal 1917 al 1925, del Teatro Eslava di Madrid.
Altri importanti uomini di teatro furono negli anni precedenti la guerra civile
A. Cipriano Rivas Cherif, fondatore nel 1928 della compagnia El Caracol e successivamente
animatore, con M. Xirgu, del Teatro Escuela de Arte, e i fratelli Baroja che
allestirono al Mirlo Blanco varie commedie di R. del Valle-Inclán. Poi
nel 1931, dopo l'avvento della Repubblica, sorsero alcuni teatri proletari e
due istituzioni sovvenzionate, la Barraca di G. Lorca, che presentava testi
classici nei villaggi, e il Teatro del Pueblo di A. Casona, cui si aggiunse,
negli anni della guerra civile, la Nueva Escena di R. Alberti, il più
importante dei gruppi politici di parte repubblicana. La vittoria di Franco
segnò, anche in teatro, la restaurazione di un'immagine della Spagna
non più rispondente alla realtà. Si rappresentarono soprattutto
commedie d'evasione (spesso importate dall'estero) o classici edulcorati, nonché
rivistine, zarzuelas e altre forme di teatro scacciapensieri. La prima reazione
di rilievo fu nel 1945 la creazione, a opera di A. Sastre e A. Paso, di Arte
Nuevo, un gruppo dichiaratamente sperimentale. In seguito Paso divenne un autore
meramente commerciale, mentre Sastre continuò, tra mille difficoltà,
a propugnare un teatro socialmente impegnato con le sue commedie e con l'attività
svolta in organismi come il Teatro de Agitación Social e il Grupo de
teatro realista. Importante è stata anche negli anni Sessanta la riscoperta
di autori come Lorca, Unamuno, Valle-Inclán e Casona, nonché il
lavoro compiuto da compagnie professionali, prima fra tutte quella di N. Espert
(che ha contribuito al rinnovamento del teatro in lingua catalana) e da vari
gruppi sperimentali. Questi ultimi, operanti spesso nella clandestinità
durante il franchismo, hanno avuto modo, dopo il 1975, di rivelarsi più
apertamente. Il più importante è l'Els Joglars di Barcellona,
diretto da A. Boadella, impegnato a praticare un teatro di protesta, di resistenza
e di agitazione sociale (molti suoi membri, a metà degli anni Settanta,
sono stati anche arrestati e processati). Altre formazioni di rilievo sono l'Els
Comediants, nato nel 1972 sotto la guida di J. Font, che tenta un percorso di
immediata e diretta comunicazione con il pubblico (si ricordino le performances
del marzo 1981, attuate “invadendo” la città di Venezia in
occasione dell'apertura del carnevale, e che sono state poi replicate con successo
in giro per il mondo) e La Fura dels Baus, che nasce alla fine degli anni Settanta
ispirandosi a manifestazioni popolari del folklore mediterraneo. Da segnalare
anche l'attività di altri gruppi come il Tei, il Teatro Tabano di Madrid,
la Cuadra di Siviglia e il Teatro Estudio Lebrijano.
Danza
Il patrimonio coreutico iberico è fra i più ricchi al mondo e
la nazione spagnola può contare su almeno due straordinari filoni di
tradizione autoctona, quello di ascendenza flamenco-andalusa e quello accademico-spagnolo
della escuela bolera. Accanto a questi due filoni maggiori sopravvivono una
quantità di tradizioni coreutiche regionali e, in tempi moderni, si sono
affermate nuove forme di espressione coreutica che attingono alla tradizione
ballettistica e a quella del modernismo e dello sperimentalismo internazionale.
Le origini del flamenco – tuttora spesso erroneamente considerato un'arte
esclusivamente gitana – si perdono nella notte dei tempi. Le prime tracce
sono di epoca preiberica e risalgono allo sviluppo di una fiorente civiltà
insediatasi nel Sud della Spagna, che aveva per capitale Tartesso. In epoca
romana Marziale e Giovenale narrano di danze insolitamente ritmiche eseguite
dalle fanciulle di quella regione con l'accompagnamento dei crotali. Con l'arrivo
degli Arabi in Andalusia (711 d. C.) l'influenza orientale si aggiunse all'eredità
della musica liturgica greco-bizantina e giudaica e a quella ritmico-musicale
di ascendenza ibero-celtica romanizzata, confluendo in una forma unica di cultura
che, dopo la Reconquista si irradiò in tutte le regioni della Spagna
, perdendo in questo passaggio alcuni dei suoi tratti peculiari. Nel sec. XX,
con l'apertura dei primi Cafés Cantantes, la musica e la danza andaluse,
che avevano mantenuto intatti caratteri antichissimi, subirono una divaricazione.
Se da un lato continuò a fiorire, in circoli ristretti, il flamenco andaluso
– frutto di intricati e geniali percorsi di improvvisazione individuale
ottenuta per accumulazione geometrica secondo un insieme di regole di proibitiva
complessità, protette da una sorta di intangibilità iniziatica
– dall'altro si verificò una parallela evoluzione della tradizione
flamenca secondo forme più lineari e stilizzate, trascrivibili –
nel caso della musica – e trasmissibili – per la danza. Quanto alla
escuela bolera, che ebbe la sua massima fioritura nei sec. XVIII e XIX, ma la
cui tradizione è giunta fino a noi grazie all'attività di celebri
famiglie di artisti, fra i quali i Pericet, essa può essere sinteticamente
definita come una variante spagnola dell'accademismo di scuola franco-italiana,
con alcune proprie regole, eccentriche rispetto al corpus principale. In epoca
moderna il patrimonio iberico e la moderna tradizione del balletto risalente
a S. P. Djagilev (che soggiornò in Spagna con i suoi Ballets Russes negli
anni del primo conflitto mondiale) si riunirono in una singolare e geniale figura
di interprete-creatrice, La Argentina (nome d'arte di Antonia Mercé),
cui si è soliti attribuire il merito della moderna rinascita della tradizione
coreutica teatrale spagnola. Intorno a lei e dopo di lei sono fiorite numerose
altre notevoli figure di interpreti-creatori (La Argentinita, Antonio, V. Escudero,
Mariemma, P. López, J. Greco, A. Gades, M. Maya) che hanno vivificato
la tradizione spagnola, rendendola nuovamente celebre in tutto il mondo. A partire
dal 1979, per iniziativa del Ministero della cultura, la Spagna possiede anche
un Balletto Nazionale Classico orientato alla formazione di un repertorio ispirato
alla tradizione ballettistica internazionale. Accanto a esso il Ballet Nacional
de Espana, nato nel 1978, si prefigge di conservare e arricchire, secondo un'originale
disciplina di scuola, il patrimonio folclorico nazionale. Nell'ultimo quindicennio
sono poi fiorite in Spagna numerose altre espressioni coreutiche variamente
ispirate a esperienze stilistiche e coreografiche di ascendenza europea e americana.
Personalità come quelle di V. Ullate – già ballerino nella
compagnia di Antonio (Ruiz Soler) e nel Ballet du XXe Siècle di M. Béjart
–, V. Saez, e gruppi come Mudances, Lanònima Imperial, Gelabert-Azzopardi
Compania de danza, arricchiscono il panorama spagnolo contribuendo a farne uno
dei terreni di più vivace attività coreutica nel mondo.
Cinema: dalle origini agli anni Settanta
Dal 1896 a Madrid e a Barcellona, il cinema entrò in Spagna negli ultimi
anni del secolo sotto il duplice stendardo dell'esercito e della Chiesa, ampiamente
sbandierato nei primi cinegiornali (anche se, nel 1898, il reportage anonimo
La llegada de las tropas de Cuba, L'arrivo delle truppe da Cuba, recava inconsciamente
una sinistra eloquenza). Tra i pionieri vanno citati S. de Chomón, maestro
di trucchi che fece poi carriera all'estero, F. Gelabert e R. de Baños
che negli anni Dieci realizzarono i primi film di successo e di qualche prestigio.
Le società non mancavano, specie a Barcellona, ma la produzione imitava
il cinema straniero o blandiva la piccola borghesia locale con spagnolismi insulsi
e volgari. Negli anni Venti, sotto la dittatura “protezionistica”
di P. de Rivera, si affermarono quali registi nazionali B. Perojo, J. Buchs,
F. Delgado e F. Rey (1896-1961) che nel 1929 firmò con La aldea maldita
(Il villaggio maledetto), fortemente influenzato dal realismo russo, il migliore
dei film spagnoli muti. Intanto, nel 1928, era nato a Madrid il primo cineclub
(fondato da L. Buñuel) e nei primi anni Trenta nacque la rivista Nuestro
Cinema grazie a J. Piqueras (1904-1936), fucilato nella guerra civile. L'introduzione
del sonoro coincise con l'avvento della Repubblica. Buñuel girò
nel 1932 Las Hurdes (tit. italiano Terra senza pane), documentario di grande
efficacia su una delle regioni più povere della Spagna, riuscendo in
seguito a imporsi al grande pubblico con film che univano elementi onirici,
critica sociale e umorismo beffardo da Un Chien andalou, 1928 (Un cane andaluso)
e L'Âge d'or, 1930 (L'età d'oro), a Los Olivados, 1950 (I figli
della violenza), a Le charme discret de la bourgeoisie, 1950 (Il fascino discreto
della borghesia) e Viridiana (1960). Negli anni Trenta molti registi si dedicarono
a un'attività alquanto impersonale (E. F. Ardavin, E. Neville, J. L.
Saenz de Heredia e altri). Nel 1935 si produssero una quarantina di film, tra
i quali solo un paio da ricordare: Nobleza baturra (Nobiltà contadina)
di Rey e La verbena de la paloma (La festa della colomba) di Perojo. Fiorì
però il documentarismo di C. Velo (poi esule in Messico come Buñuel).
Dopo il 1939 e la caduta della Repubblica, la produzione si stabilizzò
sui 30-50 film annui, quasi raddoppiati con gli anni Sessanta. Ma, come disse
nel 1955 J. A. Bardem alle Conversaciones cinematográficas di Salamanca,
si trattava pur sempre di un cinema “politicamente inefficiente, socialmente
falso, intellettualmente infimo, esteticamente nullo e industrialmente rachitico”,
anche se, fin dai primi anni Cinquanta, proprio Bardem con L. G. Berlanga aveva
segnato la nascita di un cinema nazionale fatto “con amore, sincerità
e onore”. Dominato da queste due personalità, e non certo da L.
Vajda che nel 1954 ottenne successo anche all'estero con Marcelino pan y vino,
il decennio subì l'influsso positivo del neorealismo italiano e all'inizio
del decennio successivo, mentre il reduce Buñuel trionfava a Cannes con
Viridiana (1961), subito sconfessato dal regime, l'italiano M. Ferreri con El
cochecito (La carrozzella) mise in moto l'umorismo nero di R. Azcona, suo sceneggiatore.
Negli anni Sessanta una certa liberalizzazione controllata, un certo protezionismo
per i film di qualità e i cínemas d'arte y ensayo, lo sviluppo
delle riviste specializzate, la presenza di un produttore spregiudicato come
E. Querejeta fecero parlare di nueva ola, di nuevo cine. Guardati a vista, Bardem
e Berlanga diedero altre felici prove (il primo Nunca pasa nada (Non succede
mai niente) nel 1963, il secondo La ballata del boia nel 1964), mentre emergevano
nuovi talenti: anzitutto C. Saura (Los golfos, 1960; La caza, 1966, La caccia),
poi M. Picazo (La tía Tula, da Unamuno, 1964), J. Camíno (Los
felices '60, 1963), J. Grau, B. M. Patino, F. Regueiro, M. Summers, A. Fons,
A. Eceiza, J. Aguirre; senza contare la cosiddetta scuola di Barcellona, il
cui film riassuntivo fu Fata morgana (1965) di V. Aranda, che tentò nello
stesso periodo di operare a livello stilistico una rottura, anzi una completa
distruzione della realtà non più tollerata. Il passaggio dall'uno
all'altro decennio, caratterizzato da una recrudescenza della censura, può
essere illustrato da due film ermetici e durissimi del giovane A. Ungría:
El hombre oculto (fine anni Sessanta) e Tirarse al monte (inizio anni Settanta).
Notevole, in questa congiuntura, anche il rinnovato impegno ideologico di Saura,
e da segnalare il bel film di V. Erice El espíritu de la colmena (Lo
spirito dell'alveare), premiato al Festival di San Sebastián del 1973.
Cinema: il cinema postfranchista
Durante la lunga agonia del generalissimo Franco entrarono in lavorazione tre
film, che nel 1976 annunciavano una Spagna diversa: Cría cuervos... di
Saura, La famiglia di Pascual Duarte del giovane R. Franco (entrambi premiati
a Cannes), Las largas vacaciones del '36 (Le lunghe vacanze del '36) di Camíno,
che direttamente si ricollega ai momenti tragici della guerra civile. Il dopo
Franco portò una liberalizzazione sia politica che nei costumi (l'orgia
di nudo sugli schermi), senza però che si perdesse subito l'uso della
metafora, specie nei film di Saura, come anche nel Ponte di Bardem. L'assuefazione
alla quarantennale notte del franchismo impediva a molti di rompere col passato.
Passato che in modo limpido e agghiacciante riemergeva dal trittico documentario
di B. M. Patino, Canciones para después de una guerra (Canzoni per un
dopoguerra) (1971, a lungo bloccato dalla censura), Querisídimos verdugos
(1976, tit. italiano Carissimi carnefici) e Caudillo (1977). In Raza, el espíritu
de Franco (1977), G. de Herralde “rileggeva” criticamente il vecchio
Raza (1941) di J. L. Saenz de Heredía su soggetto del dittatore. Venivano
alla luce i riti del fascismo in Camada negra (1976) di M. Gutiérrez
Aragon, e soprattutto le “diversità” che il fascismo non
tollerava: il legame sesso-morte in Bilbao (1978) di J. Bigas Luna, l'omosessualità
in A un dios desconocido (1977; A un dio sconosciuto) di J. Chávarri
e in Ocaña un retrato intermitente (1978; Ocaña un ritratto intermittente)
di Ventura Pons. Con La ciutat cremada (1976, tit. italiano La città
bruciata) di A. Ribas, nasceva il cinema interamente parlato in catalano. In
Alicia en la España de las maravillas (1977; Alice nella Spagna delle
meraviglie) di J. Feliu si ironizzava sulla democrazia che, subentrata a una
dittatura dal volto macabro, assumeva parvenze giovani e vecchie, sempre denudate,
inafferrabili, magari multinazionali. Un film sulla Guardia Civil, El crimen
de Cuenca (1980) di P. Miró, venne anche proibito. Cosicché, alla
fine degli anni Settanta, il cinema spagnolo non risultava all'altezza delle
generali speranze, pur cogliendo importanti successi all'inizio degli anni Ottanta:
l'Orso d'oro di Berlino, sia pure ex-aequo, e sia pure col non eccelso La camada
di M. Camus; e lo speciale premio di Cannes al film-balletto di Saura, Carmen.
Oltre a questi cineasti vanno ricordati J. L. Garci che con Volver a empezar
(1982; Ricominciare) porta, per la prima volta, un film spagnolo a vincere l'Oscar.
Paradossalmente nello stesso periodo, mentre il cinema iberico sopravviveva
grazie ai contributi governativi, esplodeva internazionalmente il "fenomeno"
Almodóvar, tra i più effervescenti portabandiera della nuova Spagna:
Pepi, Luci, Bom y otras chicas del montón (1980; Pepi, Luci, Bom e le
altre ragazze del mucchio); La ley del deseo (1986; La legge del desiderio);
Laberinto de pasiones (1982; Labirinto di passioni); Qué he hecho yo
para merecer esto? (1985; Che cosa ho fatto per meritarmi tutto questo?); Matador,
1987; Mujeres al borde de un ataque de nervios (1988; Donne sull’orlo
di una crisi di nervi); Átame! (1990; Legami!); Tacones lejanos (1991;
Tacchi a spillo); Kika, 1993; La flor de mi secreto (1995; Il fiore del mio
segreto); Carne trémula, 1997; Todo sobre mi madre (1999; Tutto su mia
madre); Hable con ella (2002; Parla con lei). Sulla scia del suo straordinario
successo, molti registi sono riusciti a superare i confini nazionali, facendosi
notare per una serie di pellicole dagli argomenti più vari (prevalente
la tematica erotica, trattata con disinvolto spirito scandalistico, in funzione
dissacratoria e anticonformista). Tra i nomi più interessanti troviamo
M. Armendaritz (La 23 hora, 1986), F. Trueba (Belle époque, 1992, premio
Oscar per il miglior film straniero), A. Albacete (Mas que amor, frenesi, 1996),
M. Lombardero ( El brazos de la mujer madura, 1997), J. L. Guerin (Tren de sombras,
1997), R. Franco ( La buena estrella, 1997), A. Amenábar (Tesis, 1996;
Abre los ojos, 1997) e i già citati Gutierrez Aragon (La mitad del cielo,
1986) e Aranda (Amantes, 1991; La pasión turca, 1997). La diffusione
all'estero di numerose produzioni iberiche ha inoltre permesso ad alcuni attori
spagnoli come C. Maura, V. Abril e A. Banderas, di acquisire una notevole fama
internazionale. Se in patria i film dell’anziano Berlanga continuano a
raccogliere consensi (La vaquilla, 1985; Paris-Timbuktu, 1999), anche gli autori
rappresentativi della cinematografia degli ultimi decenni sono tornati alla
ribalta:.tra questi Saura (Ay Carmela!, 1991; Dispara!, 1993; Flamenco, 1995;
Taxi, 1996 e Tango, 1998; Goya, 1999; Buñuel y la mesa del rey Salomón,
2001) e Bigas Luna: Las edades de Lulú (1990; Le età di Lulù);
Jamón, jamón (1992; Prosciutto prosciutto); La teta y la luna,
1994; Bámbola, 1996; La camarera del Titanic (1998; L'immagine del desiderio);
Son de mar (2001; Il suono del mare). Nel dicembre 1999, nell’isola di
Lanzarote, lo Spanish Film Screening for Europe ha rivelato il talento di nuovi
registi, tra i quali ricordiamo Carlos Saura jr con Tu que harias por amor.
Folclore
Al di sotto dell'unità politica la diversità delle “Spagne
” (il plurale popolare vive sempre, a dispetto del singolare ufficiale)
è tuttora perfettamente percettibile nella grande varietà dei
fenomeni folcloristici, vale a dire antropolinguistici, culturali, socioeconomici
e politici (spinte autonomistiche regionali). La stessa Spagna romana, nella
sua distribuzione “provinciale”, consacrò, su basi geografiche,
l'esistenza di cinque zone o aree fondamentali: meridionale, orientale, settentrionale,
occidentale e centrale. L'area meridionale (oggi, essenzialmente, l'Andalusia
con “appendici” nel sud d'Estremadura e ovest della Murcia), anticamente
popolata da Turdetani, Turduli e Bastuli, accolse più o meno profondi
e duraturi influssi di Fenici, Cartaginesi, Romani, Germani (Vandali e Visigoti),
Bizantini, Ebrei e soprattutto Arabi (più precisamente, dei Mori marocchini).
Da qui la persistenza di antiche forme di sfruttamento dei fertili terreni (latifondo;
colture della vite e dell'olivo; allevamenti bovini ed equini), di tipiche forme
di vita e stratificazioni sociali (abitazioni in grotte e capanne, ma anche
in cortijos, grandi fattorie isolate, ville signorili di tipo pompeiano –
col classico patio – e prosperi nuclei urbani, come Cordova, Siviglia,
Granada, Jaén, Cáceres ecc.; ricchi e colti latifondisti e masse
di servi e salariati agricoli, con nuclei di emarginati e fuorilegge: schiavi,
bandoleros e, a partire dal sec. XV, moreschi e gitani) e conseguenti manifestazioni
di religiosità popolare e rurale, superstizioni, culti vistosi ed emblematici
(confraternite e pasos della Settimana Santa , santuari e pellegrinaggi innumerevoli,
corride, alle cui origini è forse il culto cretese del toro ecc.), nonché
peculiari caratterizzazioni linguistiche (ceceo e seseo, lessico ricco di arabismi,
barocchismi metaforici e iperbolici) e vasto repertorio di creazioni artistiche,
culminanti nelle canzoni e nelle danze dello straordinario cante hondo o flamenco.
La zona orientale o mediterranea, più o meno coincidente oggi con l'area
linguistica catalana, vide fiorire, accanto alla primitiva cultura agricola
(non però di latifondo) ibero-celtica, ricchi empori commerciali greci,
ereditati e sviluppati poi da Romani e Mori (rimasti in gran numero, questi
ultimi, anche dopo l'espulsione del 1609). Ma costanti furono anche i contatti
delle province settentrionali (Catalogna propriamente detta) con la Francia
occitanica e l'Italia, a partire dall'epoca di Carlo Magno. Da cui, forse, il
tipico senso pratico (seny) e l'attivismo dei catalanofoni, che hanno fatto
di Barcellona la capitale economica del Paese. Il loro modernismo non è,
tuttavia, in contrasto con un profondo attaccamento ai costumi antichi, dall'uso
tenace della lingua ai culti religiosi (la Vergine Moreneta di Montserrat, san
Giorgio e altri patroni) e dalle danze – fra cui primeggia la classica
sardana, semplice e solenne come una danza greca – alle feste popolari,
come le “battaglie di Mori e cristiani”, le fallas di san Giuseppe
a Valencia, la rappresentazione dell'Assunta a Elche, le sfilate di giganti,
“testoni” e tarasche ecc. Antiche forme sopravvivono anche nelle
abitazioni (dal mas o masía catalano alla barraca valenciana), nei cibi
(la paella, la butifarra), in qualche indumento (la “frigia” barretina)
e in un ricco canzoniere popolare. Nella zona settentrionale hanno spicco i
Paesi Baschi (a cui appartiene anche la castiglianizzata Navarra) e le Asturie,
che si vantano di essere state il primo e più antico regno cristiano
medievale. A parte il mistero delle loro origini e della lingua, è certo
che i Baschi, cristianizzati solo a partire dal sec. IX e vissuti a lungo isolati
sulle montagne, conservano una solida struttura familiare e rurale (con centro
nel caserío o microvillaggio), resti di costumi giuridici matriarcali
e di culti totemici e lunari, superstizioni radicate (stregonerie), danze e
mascherate di evidenti reminiscenze rituali agricole, un notevole repertorio
di canti e racconti popolari e riti spettacolari, quali la famosa pelota, l'airikote,
la lotta dei montoni, le gare d'ascia ecc. Gli abitanti della costa sono, da
tempi immemorabili, pescatori e marinai provetti. Assai ricca è anche
la cultura popolare asturiana, pure di origine pastorale e agricola, con un
vasto patrimonio di romances, danze quali la danza prima e il corricorri e strumenti
come la gaita de pellejo. Nella zona occidentale risalta la Galizia, regione
isolata e aspra (vi domina il minifondo e le risorse sono molto limitate), che
in tempi remoti fu però il centro di un forte regno barbarico (quello
svevo) e nel Medioevo ebbe un momento di apertura e di fama europea grazie al
celebre santuario di Santiago de Compostela, per cui la parlata romanza locale,
successivamente estesa al Portogallo, assurse alla dignità di lingua
letteraria. I Galiziani conservano costumi e istituti antichi, dalla proprietà
comunale dei pascoli all'horreo isolato su piloni, dalla capanna rotonda (pallaza)
alla cappa impermeabile vegetale (coroza). La loro immaginazione celtica popola
la terra di fantasmi di trapassati (Santa Compaña) e di stregonerie;
ma le loro feste (fra cui i maggi), con musiche e danze (muiñeiras) accompagnate
dalla zampogna (gaita) e dal tamburo, sanno anche essere allegre, sebbene mai
disgiunte da un fondo di malinconia. La zona centrale, infine, comprende le
due Castiglie e l'Aragona, i pilastri dell'unità politica spagnola. Discendenti
di quei Cantabri e Celtiberi che tanto resistettero ai Romani (l'attestano ancora
le epiche rovine di Numanzia), i castigliani, individualisti come il loro eroe
tipico, il Cid Campeador, calarono dalle montagne (a N di Burgos) fino a Gibilterra,
in lunghi secoli di lotta contro i Mori, popolando la Spagna di castelli e di
hidalgos. Oggi la Vecchia Castiglia (Soria, Ávila, Salamanca) è
meno popolata e più povera delle fertili regioni centrali (Nuova Castiglia,
dove rimasero molti discendenti dei Mori vinti) e meridionale, ma conserva zone
di un affascinante arcaismo, come le Hurdes (Salamanca), l'alta Estremadura
e la Maragatería (nell'antico regno di León), e costumi agricoli
e pastorali (transumanza) molto radicati, con danze, feste (San Giovanni) e
canzoni tipiche. Interessante appendice castigliana è la Montagna (provincia
di Santander), vero cuneo inserito fra Baschi e Asturiani, sulla costa cantabrica.
Nell'Aragona, infine, sono ben distinguibili due zone: le alte valli pirenaiche
dove sopravvivono arcaici costumi pastorali, e la fertile valle dell'Ebro, secolare
via di comunicazione e di scambi culturali, ben nota a Romani e Arabi. Quivi
sorge l'antica capitale, Saragozza, col suo famoso santuario della Madonna del
Pilar, e capoluogo oggi di una prospera regione agricola e industriale. Nel
composito folclore aragonese spiccano la celebre jota, vivacissima danza di
probabile origine moresca, il dance, colorito spettacolo coreografico, e i maggi.
Appartengono, da ultimo, alla Spagna due gruppi insulari di alto interesse folclorico:
le mediterranee Baleari, dove l'arcaica Ibiza fa spicco sulle catalane Maiorca
e Minorca, e le atlantiche Canarie, dove prima della conquista castigliana (fine
sec. XV) fiorì la misteriosa cultura dei Guanches e dove sopravvivono
costumi antichissimi, come le danze tajaraste e sirinoque e il linguaggio “fischiato”
della Gomera, unico nel mondo. In ognuna di queste aree è fiorente l'artigianato
e basterà ricordare gli smalti, le perle artificiali (le cosiddette “perle
di Maiorca”), le spade e i coltelli di Toledo con decorazioni in agemina,
i broccati di Segovia, le sete di Granada, i tappeti di Alcatraz e dell'Alpujarras,
gli strumenti musicali, specie a corda, le nacchere, i cembali, i cuoi sbalzati
di Cordova, le mantiglie e gli splendidi ventagli.
Gastronomia
La cucina spagnola non è raffinata, ma sostanziosa e molto saporita,
dominata dall'olio aspro, dall'aglio, dalla cipolla e dalle spezie; mescola
i sapori, le carni con i pesci, i frutti di mare, le verdure, come le cucine
orientali (tipica in questo senso la paella valenciana). Eccellente il prosciutto
della Sierra (jamón serrano) e il chorizo, saporitissima salsiccia. Cibo
tipico è il cocido, simile al cuscus arabo. Se ne hanno diverse varianti,
secondo le regioni, ma in genere si tratta di una specie di minestra con verdure,
carne di bue o di montone o di pollo. Altri piatti tipici spagnoli sono la zuppa
d'aglio, il gazpacho (zuppa andalusa), specie di minestra fredda a base di pomodori,
peperoni, cetrioli, cipolle sminuzzate, aglio, pane, olio e aceto. La merluza
(merluzzo) è cucinata in un'infinità di modi. La bevanda più
diffusa è il vino. Migliori tra tutti sono il rioja, il jerez, il málaga,
il manzanares e l'alicante.
Clemènte V
(al secolo Bertrando di Goth). Papa (Villandraut ?-Roquemaure 1314). Vescovo
di Cominges (1295) e arcivescovo di Bordeaux (1299), fu eletto papa (1305) per
volere di Filippo IV il Bello. Rimase in Francia dando inizio alla “cattività
avignonese”. Su ordine di Filippo aprì un processo (1310) alla
memoria di Bonifacio VIII accusato di eresia e immoralità; nel Concilio
di Vienne (1311-12) soppresse l'ordine dei templari dei quali il re bramava
le proprietà; favorì l'espansione della potenza angioina nominando
Roberto d'Angiò capo del partito guelfo in Italia; ordinò la raccolta
delle sue decretali (clementino, Costituzioni clementine); diede impulso all'evangelizzazione
dei pagani d'Oriente (nominò un arcivescovo a Pechino); favorì
gli studi di medicina e lingue orientali istituendo cattedre universitarie di
ebraico, siriaco e arabo; fondò le università di Orléans
e di Perugia e ricostruì la basilica lateranense.
Teutònico, órdine-
ordine monastico-militare originato da un ospizio tedesco. Dipendente dal
papa a Gerusalemme (1143) e costituito in ordine, fu dedicato a Maria Vergine,
nel 1197, ed ebbe sede ad Acri. Dotato di ampi privilegi papali, venuta meno
la sua funzione in Terrasanta, fu chiamato dal duca Corrado di Masovia sulle
rive del Baltico per una “crociata” tedesca contro gli Slavi di
Prussia, Lituania, Livonia ed Estonia ancora pagani. Fusisi con i locali Cavalieri
Portaspada, i teutonici condussero la “crociata” con inaudita ferocia
e, salvaguardati da privilegi papali e imperiali (Federico II), conquistarono
e colonizzarono prima la Prussia, poi i rimanenti Paesi baltici. Si crearono
così un vero e proprio Stato nell'Impero (capitale Marienburg, che toccò
l'apogeo nel sec. XIV); tra le numerose città da loro fondate, Torun,
Königsberg e l'importantissimo porto commerciale di Danzica. L'emergere
del regno di Polonia e la sua unione con la Lituania (1385) segnarono il declino
dell'ordine. Sconfitto da Polacchi e Lituani a Tannenberg (1410) e minato poi
da insurrezioni interne, l'ordine si ridusse al dominio della Prussia Orientale
(1466), in rapporto di vassallaggio col re di Polonia. Nuova capitale divenne
Königsberg. Nel 1525 il Gran Maestro Alberto di Brandeburgo, passato al
luteranesimo, secolarizzò il suo Stato prussiano, che diventò
un feudo degli Hohenzollern sotto la corona polacca. Ma l'ordine, rimasto cattolico,
sopravvisse in Germania fino al 1809 quando fu soppresso da Napoleone I, e risorse
trent'anni dopo a Vienna sotto gli auspici degli Asburgo con le funzioni originarie
di assistenza e di culto, e in questa forma sopravvive tuttora seppure con un
numero esiguo di membri distribuiti tra Austria, Germania, Italia. La sede è
a Vienna. Insegna dell'ordine è una croce nera, contornata di un alone
chiaro, con il braccio inferiore più lungo degli altri.
Venèzia (città)
Geografia
Città del Veneto, capoluogo regionale e dell'omonima provincia, sede
arcivescovile (patriarcato), universitaria e grande centro di storia d'arte
e di cultura con imponenti attrezzature industriali e un porto tra i maggiori
del Mediterraneo orientale; comune di 457,47 km2 (il più esteso del Veneto)
con 291.531 abitanti (stima del 2000). È situata a 1 m s.m. nel cuore
della Laguna Veneta su un complesso irregolare di isole e isolette, separate
tra loro da una fitta rete di canali, in parte ora colmati o tenuti aperti artificialmente,
a soli 2 km dal mare aperto (golfo di Venezia) e a 4 dalla terraferma veneta,
con la quale è collegata mediante due lunghi viadotti affiancati, uno
ferroviario (1846) e uno stradale (1933). Il comune comprende anche le isole
o i gruppi insulari di Murano, Burano, Mazzorbo, Torcello, Sant'Erasmo, Vignole,
La Certosa, San Servolo, San Clemente, Sacca-Sessola e altre, nella laguna,
e le lunghe e strette isole del Litorale di Lido e del Litorale di Pellestrina,
che separano la laguna dal mare aperto e ospitano i centri balneari e residenziali
di Lido, Malamocco, Alberoni, San Pietro in Volta e Pellestrina; la città
si stende ampiamente anche sulla terraferma, dove sorgono i grossi agglomerati
urbani di Mestre e di Marghera, altri centri minori e i vasti impianti portuali
e industriali di Porto Marghera. ? Il nucleo storico tradizionale di VeneziaSan
Giorgio Maggiore, sul bacino di San Marco, e della Giudecca , di fronte alle
Fondamenta delle Zattere, è costituito ora da 18 isolette (in passato,
prima del colmamento di vari canali, erano molto più numerose), separate
da ben 160 canali, superabili attraverso ca. 400 ponti, anticamente di legno,
ma successivamente (dal 1486) sostituiti da quelli attuali di pietra, quasi
sempre ad arco. Le arterie del traffico sono rappresentate dai canali, mentre
i vicoli, chiamati normalmente “calli”, in genere stretti e tortuosi,
collegano i “campi” e i “campielli”, che si aprono spesso
nella parte centrale delle isole, con le “fondamenta" o direttamente
con i canali stessi, dando luogo a un tessuto urbano originale e particolarissimo,
straordinariamente ricco di effetti scenografici e di scorci pittoreschi.
Urbanistica
La maggiore arteria della città è il celebre Canal Grande, largo
da 30 a 70 m, che sviluppandosi per ca. 3800 m con la forma di una gigantesca
S rovesciata mette in comunicazione la stazione ferroviaria di Santa Lucia e
il piazzale Roma (cioè le aree insulari raggiunte dai traffici di terraferma)
con il bacino di San Marco, su cui si affacciano alcune fra le principali strutture
dello splendido nucleo monumentale e nel quale confluiscono da SE il canale
di San Marco e da W il canale della Giudecca. Tradizionalmente la città
è divisa nei sestieri di Cannaregio, San Marco e Castello, a NE del Canal
Grande; Santa Croce, San Polo e Dorsoduro, a SW. Il traffico, che si svolge
in larga misura per via d'acqua con gondole, motoscafi e vaporetti per le persone,
barche e barconi per le merci, costituisce una delle caratteristiche più
tipiche di un tessuto urbano tanto originale. Nel settore orientale della città,
in direzione dell'antico Arsenale, si aprono i Giardini Pubblici, voluti da
Napoleone Bonaparte nel 1807, una parte dei quali ospita ora i padiglioni dell'Esposizione
Internazionale di Arte Moderna. Subito a E sorge l'isola di Sant'Elena, sede
di impianti sportivi. Di recente creazione o sviluppo sono i due grandi nuclei
urbani di Marghera e di Mestre e il centro balneare, e in seguito specialmente
residenziale, del Lido. L'affermazione di questi centri satelliti, caratterizzati
da una netta e marcata differenziazione urbanistica ed economica, è stata
oltremodo favorita da un intenso flusso migratorio dal centro storico di svariate
migliaia di abitanti, che hanno preferito abbandonare le vecchie dimore malsane
del centro storico e trasferirsi in quartieri più moderni e in abitazioni
maggiormente rispondenti alle esigenze della vita moderna. Il progressivo svuotamento
demografico del nucleo storico, dovuto a ragioni sociali più che economiche
– come dimostra il flusso giornaliero di alcune decine di migliaia di
addetti all'industria e al commercio, che ogni giorno dalla terraferma si recano
a lavorare nella città insulare – ha determinato un progressivo
invecchiamento della popolazione residente, il drammatico inarrestabile sgretolamento
del patrimonio edilizio, la stasi pressoché assoluta dell'attività
edilizia e l'incremento di attività speculative legate al turismo e all'edilizia
di lusso. Numerosi piani e progetti sono stati avanzati per impedire o frenare
l'inaridimento economico e sociale del nucleo storico, che si va sempre più
trasformando in città-museo; ma di concreto ben poco è stato fatto
sia per i vari ostacoli d'ordine politico e finanziario, sia principalmente
per la mancanza di proposte concrete e valide, atte a fornire una soluzione
accettabile a una serie di problemi così complessi. La città lagunare,
dopo essere stata per secoli il più grande e attivo emporio commerciale
di tutto il Mediterraneo per i suoi vivaci scambi con il Levante musulmano e
con i ricchi mercati dell'Europa centrale, cominciò a decadere fin dal
sec. XVI in conseguenza dello spostamento verso l'Atlantico delle maggiori correnti
di traffico mercantile. Un risveglio delle attività economiche ebbe luogo
verso la metà del sec. XIX, grazie alla costruzione del ponte ferroviario
e l'allestimento di banchine e magazzini portuali all'estremità occidentale
dell'abitato insulare. In alcuni decenni il porto ebbe un'espansione apprezzabile
come sbocco dei prodotti della retrostante terraferma veneta e come punto di
sbarco delle merci importate dall'estero; si affermava intanto rapidamente il
turismo – per lo più ancora soltanto di élite – per
la bellezza e l'originalità dell'ambiente artistico e urbano della città
e per la presenza della spiaggia del Lido, avviato a divenire una delle stazioni
balneari e mondane di fama internazionale. L'economia cittadina si basò
così fino alla fine della prima guerra mondiale sui traffici commerciali,
sulle attività artigianali (alcune delle quali, come quelle del vetro
e dei merletti, di antichissima tradizione) e sui servizi, in buona parte direttamente
o indirettamente connessi con il movimento turistico in rapido sviluppo. Con
la fine del secondo conflitto mondiale ebbe inizio la costruzione del porto
commerciale e della zona industriale di Marghera, che contribuì efficacemente
a trasformare la struttura economica e sociale della città, assegnando
a ciascuna delle sue componenti una precisa funzione economica: l'attività
peschereccia veniva trasferita a Malamocco e a Burano, dove riprendeva vigore
l'artigianato dei merletti; l'industria vetraria a Murano; la vita mondana e
balneare al Lido; i commerci e la grande industria moderna negli insediamenti
di Mestre especialmente di Marghera. Il nucleo storico finiva così con
l'assumere caratteristiche sempre più (e spesso quasi esclusivamente)
residenziali, con una popolazione dedita in prevalenza alle attività
artigianali e ai servizi. Se si escludono le attività artigianali o a
livello di piccola industria presenti nei vecchi quartieri della città
lagunare e nelle isole di Murano (vetri) e Burano (merletti), le industrie d'impronta
moderna e di considerevoli dimensioni sono tutte ormai ubicate sulla terraferma,
specialmente nell'area di Marghera, dove una fitta rete di canali consente di
sfruttare, senza eccessivi gravami di trasporto, le materie prime, anche quelle
più povere come il carbone, la bauxite e le fosforiti. Le banchine hanno
uno sviluppo di ca. 32 km e i binari, che le collegano ai numerosi stabilimenti
industriali e alla rete ferroviaria nazionale, raggiungono i 140 km, le strade
i 40 km e i canali industriali (compreso il raccordo con il Naviglio di Brenta
) i 20 km. Il movimento complessivo delle merci è intenso: nel 1997,
ad esempio, le navi arrivate e partite (tra navigazione internazionale e di
cabotaggio) furono ca. 4500, sbarcando e imbarcando ca. 24 milioni di t di merci
e ca. 650.000 passeggeri. L'industria nell'area di Marghera è particolarmente
sviluppata nei settori chimico, petrolchimico e metallurgico, seguiti a notevole
distanza da quelli meccanico, dei materiali da costruzione, della ceramica,
del vetro e dell'abbigliamento. Il consistente processo di industrializzazione
dell'area comunale ha avuto tuttavia conseguenze negative sia sull'equilibrio
ecologico della laguna di Venezia, sia sul patrimonio artistico della città,
a causa del diffuso inquinamento marino e atmosferico. Un altro grave problema
che Venezia si trova ad affrontare è quello dell'acqua alta: tale fenomeno
è dovuto in parte anche alla subsidenza, cioè al progressivo sprofondamento
del fondo lagunare provocato sia da bradisismi naturali, sia dalla costante
emunzione di acqua dal sottosuolo mediante pozzi artesiani (poi chiusi). Intensissimo
è il movimento turistico, sia al Lido (specie d'estate) sia principalmente
nel nucleo storico (tutto l'anno). L'attrezzatura ricettiva non è adeguata
nei mesi di punta alle esigenze della numerosissima clientela, che giunge a
Venezia prevalentemente per strada e ferrovia; relativamente numerosi sono anche
i passeggeri all'aeroporto di Venezia-Tessera (oltre tre milioni all'anno),
che è stato costruito in terraferma proprio al margine della laguna.
Storia
L'intenso popolamento e la progressiva organizzazione e strutturazione cittadina
delle isole lagunari risalgono ai Longobardi (568), che provocarono un esodo
massiccio da Aquileia, Padova e altre città verso Malamocco, Rialto,
Grado, sotto la protezione dei Bizantini. Un magistrato bizantino governò
le isole con residenza prima a Eraclea, poi a Malamocco: solo nel 726 appare
un doge indigeno, Orso Ipato; ma sia questi sia i suoi successori rimasero alle
strette dipendenze dell'esarca fino al 751. Venezia acquistò allora una
larga autonomia, ma non cessò di riconoscere la sovranità di Bisanzio
e di coltivarne un vantaggioso protettorato per i viaggi di mare. Nel confronto
fra l'impero carolingio e quello bizantino, Venezia si schierò con quest'ultimo,
resistette agli attacchi franchi (803 e 810) e alla composizione del conflitto
e alla definizione dei confini tra i due imperi restò a quello d'Oriente
(814). In questo periodo il centro politico di Venezia si spostò a Rialto
e qui, dopo la traslazione delle reliquie di San Marco e la costruzione della
basilica, ebbe anche il suo centro religioso. Nei sec. IX e X, con la crescita
della città, il legame con Bisanzio si trasformò da sudditanza
in alleanza. All'interno, i dogi avevano poteri quasi dittatoriali, senza per
altro riuscire a trasformare in ereditaria la loro dignità elettiva e
vitalizia. All'estero, i veneziani difendevano con successo, insieme ai Bizantini,
la libertà della navigazione nell'Adriatico contro pirati slavi e saraceni.
Tra la fine del sec. X e i primi dell'XI, la città ottenne larghi privilegi
commerciali nell'impero bizantino (992) in cambio di un'alleanza militare, assicurandosi
protezione e garanzie da Ottone III di Sassonia per il transito dei suoi mercanti
in Italia e in Germania e imponendo, sotto la specie della difesa, il suo controllo
sulla Dalmazia (999). Formalmente delegato dall'imperatore bizantino, in realtà
il doge agiva ormai come il capo di uno stato indipendente. Nella difesa comune
contro i Normanni l'imperatore Alessio I Comneno accordò larghissimi
privilegi al commercio veneziano e, in cambio, i Veneziani salvarono dai Normanni
il caposaldo bizantino di Durazzo (1085). Neutrale nella lotta delle investiture,
Venezia prese invece parte alla prima crociata per non essere sopravanzata da
pisani e genovesi (1100) e occupò Haifa. Ma la politica ambigua degli
imperatori bizantini nei confronti dei veneziani, temuti ora come troppo potenti
e perciò frenati favorendone i rivali pisani, portò a un'aperta
rottura (1118). Venezia s'impegnò allora in imprese militari contro Bisanzio
e, in Siria, contro i turchi, che le fruttarono la conferma e l'estensione dei
privilegi del 1082 nell'impero (1126) e nuovi privilegi e colonie nel regno
di Gerusalemme (Ashqelon, Tiro). Con le crociate aveva inizio il grande impero
veneziano del Levante: basi in area bizantina (a Costantinopoli, Tessalonica,
Corinto, isole Ionie, Creta, Cipro, ecc.) e gerosolimitana (Tiro, Haifa, Sidone,
Ashqelon, Acri, ecc.), nonché ad Alessandria. La gestione di questa vastissima
rete d'interessi essenzialmente commerciali era tuttavia ancora affidata all'iniziativa
dei privati: lo stato si limitava a proteggerli. All'interno emergeva dall'Assemblea
popolare un sistema di Consigli destinati a integrare il governo dogale. Nella
seconda metà del sec. XII Venezia dovette salvaguardare la sua indipendenza
dall'imperialismo tedesco: favorì allora i Comuni contro il Barbarossa,
ma vide compromessa la sua egemonia sull'alto Adriatico a favore dei Bizantini.
I veneziani furono perseguitati nell'impero bizantino (1071), mentre slavi e
ungheresi scrollavano le posizioni veneziane sulla costa adriatica orientale
e i commercianti genovesi e pisani prendevano il sopravvento sui mercati del
Levante. La pace di Venezia tra il Barbarossa e papa Alessandro III (1177) attenuò
molto la crisi. All'interno del governo cittadino avvenivano frattanto importanti
mutamenti costituzionali: l'elezione del doge fu tolta al popolo e riservata
a soli 40 elettori, scelti da un'apposita commissione; al popolo rimase il diritto
di ratificarla (1172). Il doge fu affiancato da sei consiglieri (uno per ciascun
sestiere della città), costituendo un consiglio ristretto (Minor Consiglio)
e, con l'aggiunta di altri tre savi, la Signoria. Tutte le iniziative di questi
organi supremi dovevano però essere sottoposte all'approvazione del Maggior
Consiglio, emanazione dell'Assemblea popolare (soppressa poi nel 1423), organo
del potere legislativo (e, col volgere del tempo, di altri poteri), nonché
di altri Consigli sorti in tempi diversi, come il Senato, sviluppatosi dal primitivo
gruppo di consiglieri pregati dal doge di collaborare con lui (i Pregadi) e
destinato a governare infine la politica estera, la difesa e l'economia: a tenere
cioè le leve di comando della politica veneziana. Con la quarta crociata
Venezia poté raggiungere con i suoi traffici il Mar Nero; dopo la conquista
di Bisanzio, a Venezia. toccarono le coste e le isole Ionie, il Peloponneso,
le Cicladi, stabilimenti sugli Stretti, Creta e un ampio quartiere a Costantinopoli.
Con il crollo dell'impero latino d'Occidente, Venezia perdette le principali
posizioni e i privilegi raggiunti (tra cui l'accesso al Mar Nero), che passarono
in gran parte a Genova. Ne tentò il ricupero facendo guerra a Genova
e normalizzando i rapporti col restaurato impero bizantino. Nel sec. XIII, al
culmine della sua fortuna, Venezia diede un'organizzazione razionale al suo
impero commerciale, accentrandone il governo e inviando nelle colonie alcuni
rettori (baili), responsabili di fronte al doge. A fine secolo, Venezia stessa
trasformava il suo regime in una forma vicina all'oligarchia, limitando l'accesso
al Maggior Consiglio alle famiglie che già ne avevano fatto parte (Serrata
del Maggior Consiglio, 1297). Per prevenire reazioni da parte popolare o da
parte dogale fu istituito il Consiglio dei Dieci (1310), magistratura investita
della difesa del nuovo regime. Nonostante le alterne vicende della seconda metà
del sec. XIII e della prima metà del XIV, l'impero veneziano nel Levante
conservava un valore commerciale immenso, coi suoi vertici in Crimea (a Tana),
in Cilicia (a Laiazzo), in Egitto (ad Alessandria), coi suoi scali a Costantinopoli
e nelle isole del Mediterraneo orientale. A organizzare la flotta era ormai
lo stato, che aggiudicava ai privati, caso per caso, il naviglio occorrente.
Verso la metà del sec. XIV, e in concomitanza coi primi progressi dei
turchi Ottomani, Venezia, sentendosi minacciata sulla terraferma, intraprese
una politica italiana per garantirsi contro gli Scaligeri di Verona con l'acquisto
di Treviso (1337-38). Poi, vinta la guerra di Chioggia (1381) contro i genovesi
e scongiurata l'impetuosa avanzata di Milano, tolse all'ultimo dei Carraresi
il possesso di Padova, Vicenza e Verona (1405) e conquistò il Friuli.
Frattanto riprese il possesso della Dalmazia. La politica di terraferma costrinse
Venezia a impegnarsi in una serie di guerre, specialmente contro Milano. Nonostante
alterne fortune, tra il 1425 e il 1454 la Repubblica riuscì ad annettere
Brescia, Bergamo e i rispettivi territori (1454) diventando uno dei cinque maggiori
stati italiani. I domini italiani s'adattarono senza gravi turbamenti al governo
veneziano, uno dei più tolleranti e illuminati d'Europa. Mentre era impegnata
nella sua politica italiana, Venezia perdeva terreno in Oriente. I turchi le
tolsero anzitutto Salonicco (1430) e, dopo la caduta di Costantinopoli, tra
Maometto II e la Repubblica si giunse a un trattato di pace (1454), che si rivelò
nei fatti una semplice tregua: il sultano riattaccò ben presto le posizioni
veneziane dal Peloponneso alla Crimea, spingendo l'offensiva fino al Friuli.
Contro le molte posizioni perdute, Venezia venne in possesso di Cipro. Alla
fine del Medioevo, Venezia era la città cosmopolita più importante
e ammirata d'Europa. La sua posizione però doveva cambiare con la scoperta
dell'America: chiusa nel bacino del Mediterraneo, Venezia ne avrebbe risentito
le irreversibili conseguenze. L'aggressiva spregiudicatezza della sua politica
e la potenza economica e militare tuttavia erano ancora tali da far sospettare
che mirasse al predominio su tutta l'Italia: nel giro di pochi anni Venezia
partecipò alla lega contro Carlo VIII (1495) e fu presente alla battaglia
di Fornovo; approfittò delle difficoltà degli Aragonesi e s'impadronì
di alcuni porti pugliesi affacciandosi sullo Ionio; intervenne nella guerra
tra Firenze e Pisa; per ottenere Cremona e la Gera d'Adda si alleò con
la Francia e contribuì alla sconfitta dei Visconti; dopo la caduta del
Valentino occupò rapidamente Cervia e Faenza (1504) e tolse agli Asburgo
Gorizia e Trieste (1507-08). Le potenze europee e italiane allora si coalizzarono
per ridurla ai soli territori della laguna (Lega di Cambrai, 1508); Venezia
fu sul punto di soccombere. Per sua fortuna, l'accordo tra i collegati venne
meno ed essa si liberò della Spagna, del papa e della Francia restituendo
le terre occupate dopo il 1494, e poté contrattaccare l'imperatore; con
la partecipazione alla Lega Santa rientrò poi in possesso di molti dei
territori perduti; migliorò ancora la sua condizione attraverso una nuova
alleanza con Luigi XII (Blois, 1513); con la Pace di Noyon (1516), infine, riebbe
anche le ultime città che stavano in mano nemica. Grazie all'abilità
diplomatica e all'energia militare la gravissima crisi parve superata, ma in
realtà la politica della Repubblica fu da allora costretta a una condotta
più cauta ed essenzialmente conservatrice. Il ritorno offensivo dei turchi
le inflisse la perdita di gran parte delle isole egee, Malvasia e Nauplia (1537-39),
e alla fine di Cipro. Anche la vittoria di Lepanto (1571) non le recò
tangibili vantaggi: riuscì solo a salvare i suoi privilegi commerciali
nell'Impero ottomano . E se di fronte ai tentativi d'ingerenza pontificia la
Repubblica seppe ancora trovare atteggiamenti di risoluta indipendenza, i momenti
della grande politica erano però finiti. Stretta tra il ducato spagnolo
di Milano e l'incombente minaccia degli Asburgo e dei turchi, Venezia optò
per un politica di difesa: nel 1617 riuscì a sgominare gli Uscocchi che
infestavano l'Adriatico; nel 1618 sventò in extremis la congiura organizzata
dal Bedmar per abbattere la signoria con un colpo di mano; dalla guerra in Valtellina
uscì praticamente sconfitta (Trattato di Monzón, 1626). Nel Mediterraneo
ottenne qualche brillante successo (Paro, 1651; Dardanelli, 1656), ma alla fine
dovette cedere anche Creta, e il suo vittorioso ritorno nel Peloponneso (1687)
fu vanificato dalla Pace di Passarowitz (1718). Ridotta alla Dalmazia, alle
isole Ionie e alle Bocche di Cattaro, impotente contro la concorrenza dei porti
atlantici, francesi e persino ispano-italiani, la Repubblica si ridusse a potenza
di secondo piano, avviata a una progressiva decadenza a causa della tendenza
a investire i capitali nella proprietà terriera. Nemmeno l'illuminismo
riuscì a cambiare in qualche modo l'atmosfera stagnante della città:
circoli responsabili del governo, ultraconservatori, rifiutarono ogni suggerimento
di riforme. Gravata da un debito pubblico di quasi cento milioni di ducati verso
il 1790, la Repubblica ebbe ancora uno sprazzo di effimera gloria con le imprese
marinare di Giacomo Nani (1766-68) e Angelo Emo (1784-92) contro le reggenze
barbaresche (Tunisi, Tripoli e Algeri), ma poi cadde quasi senza avvedersene
sotto i colpi dell'offensiva napoleonica. Costretta a lasciare il passo sul
suo territorio alle truppe francesi e austriache durante la prima campagna d'Italia,
con la rivolta popolare di Verona (1797), offrì il pretesto al Bonaparte
per porre termine alla sua millenaria esistenza. Il 12 maggio 1797, su richiesta
del Bonaparte, il Maggior Consiglio dichiarò dissolto lo stato e il doge
Ludovico Manin lasciò il posto a una municipalità di giacobini
filofrancesi; poco dopo, in base al Trattato di Campoformido, Venezia passò
all'Austria con tutto il suo territorio italiano fino all'Adige, tra l'indifferenza
delle potenze europee. Annessa al Regno d'Italia insieme all'Istria e alla Dalmazia
(Pace di Presburgo, 1805), ritornò agli Asburgo nel 1814. Agli svantaggi
della dominazione straniera si aggiunse un regime fiscale e doganale particolarmente
esoso: alla notizia dell'insurrezione di Vienna Venezia insorse il 17 marzo
1848, costringendo la guarnigione austriaca (generale Zichy) ad abbandonare
la città (sera del 22). Costituitosi quindi un governo provvisorio presieduto
da D. Manin (23 marzo), dapprima venne proclamata la Repubblica di San Marco
e successivamente (4 luglio) la formale annessione agli stati sardi. Dopo la
battaglia di Custoza, il popolo insorse di nuovo (11 agosto 1848), costringendo
i commissari piemontesi ad abbandonare il campo e nominando Manin presidente
di un nuovo governo provvisorio. Gli austriaci assediarono la città,
e invano le milizie veneziane tentarono numerose sortite. Con l'armistizio di
Novara gli austriaci poterono aumentare le loro forze all'assalto della città.
Dopo una serie di scontri preliminari, il 4 maggio fu attaccato il forte di
Marghera, che dovette essere abbandonato dopo una resistenza di ben ventidue
giorni. Gli assediati fecero saltare allora il lungo ponte ferroviario che univa
la città alla terraferma, e la resistenza continuò nonostante
la fame, il colera e il cannoneggiamento nemico. La resa venne solo il 24 agosto
e, con la sospensione immediata delle operazioni, venne concessa l'amnistia
per tutti i soldati e sottufficiali combattenti; i militari, gli ufficiali e
i quaranta patrioti più in vista (tra cui Manin) dovettero lasciare Venezia.
Ritornata quindi sotto il dominio austriaco, solo dopo la terza guerra d'Indipendenza,
in base al Trattato di Vienna (3 ottobre 1866) e al plebiscito del successivo
22 ottobre, passò all'Italia.
Arte
Centro della vita cittadina e massimo complesso urbanistico e architettonico
di Venezia è piazza San Marco, che trae nome dalla basilica sorta nel
sec. IX e dedicata al santo omonimo. La basilica, che costituisce il più
alto esempio d'arte veneto-bizantina, in cui si fondono anche stili successivi
(romanico, gotico e rinascimentale), fu ricostruita nel sec. XI sul modello
della chiesa dei SS. Apostoli di Costantinopoli (ora distrutta). A croce greca,
con cinque cupole, è preceduta da un atrio che circonda tutta la parte
occidentale; nel sec. XIII le cupole vennero arricchite di splendenti decorazioni.
La facciata, dal coronamento gotico ricco di pinnacoli e cuspidi (sec. XV),
è spartita orizzontalmente da una terrazza con balconata; nella parte
inferiore sono cinque profonde arcate, in fondo alle quali si aprono altrettanti
portali, con notevoli rilievi scultorei di gusto bizantino; sulla terrazza sono
collocati i celebri quattro cavalli in rame dorato portati da Costantinopoli,
ritenuti opera ellenistica (sec. III a. C.). Anche i fianchi della basilica
sono ornati da preziosi rilievi e sculture, tra cui, sul lato meridionale, il
gruppo in porfido dei Tetrarchi (sec. IV). L'atrio, diviso in campate da archi
acuti, è sormontato da cupolette rivestite da splendenti mosaici di gusto
veneto-bizantino (1220-50) con storie del Vecchio Testamento. L'interno è
a croce greca, con cinque cupole poggianti su grandi arconi a botte; ciascun
braccio è diviso in tre navate da colonnati che sostengono i matronei.
Le cupole, la parte alta delle pareti, i sottarchi delle navate sono interamente
ricoperti di mosaici, in larga parte dei sec. XII-XIII (con rifacimenti posteriori),
che costituiscono una significativa sintesi dell'iconografia bizantina. Il presbiterio,
rialzato, è sormontato dall'altare, ornato da un ricco ciborio sorretto
da colonne istoriate (forse del sec. XIII). Dietro l'altare è la celebre
pala d'oro, splendido esempio di oreficeria veneto-bizantina (sec. X-XIV), formata
da riquadri a lamina d'oro ornati di smalti e montati in una finissima cornice.
Nell'abside si apre la porta bronzea della sacrestia, di I. Sansovino. Il Tesoro
della basilica è ricco soprattutto di oggetti di oreficeria bizantina:
pissidi, caraffe, calici, patene (dal sec. X al XIV) e rilegature decorate con
rilievi, smalti e nielli; tra i pezzi più importanti sono la corona di
Leone VI (sec. X) e il paliotto di San Marco, in argento dorato e lavorato a
sbalzo. Di fronte alla chiesa si leva il caratteristico campanile, alto 98 metri,
ricostruito dopo il crollo del 1902. Alla base si appoggia la loggetta del Sansovino,
elegantemente decorata (1537). A fianco della basilica, sulla piazzetta, s'innalza
lo splendido Palazzo Ducale, ricostruito nei sec. XIV-XV da maestri veneziani,
toscani e lombardi (Pier Paolo Dalle Masegne, Bartolomeo e Giovanni Bon, ecc.)
sul luogo di un precedente edificio romanico. Capolavoro del gotico veneziano,
si caratterizza per l'audace struttura, porticata in basso e compatta nella
parte superiore, e per la levità delle superfici rivestite di marmo bianco
e rosa. All'interno, cui si accede per la Porta della Carta (1443), è
l'ampio cortile gotico-rinascimentale, ornato dalla monumentale Scala dei giganti,
di A. Rizzo. Nell'interno del palazzo particolarmente interessanti la Scala
d'oro, con stucchi di A. Vittoria (1555), e l'appartamento dogale, dove si conservano
vari dipinti, di G. Bellini, H. Bosch, G. B. Tiepolo; tra le numerose sale che
conservano capolavori della scuola veneziana, celebre è quella del Maggior
Consiglio, dal soffitto decorato con 35 pannelli del Veronese, e ornata da numerosi
quadri, tra cui il grande Paradiso del Tintoretto; da ricordare infine le statue
di Adamo ed Eva, di A. Rizzo (1470), fra i capolavori della scultura veneziana.
Altri monumentali edifici sono la Torre dell'Orologio, di M. Coducci (1496),
le Procuratie Vecchie, di I. Sansovino, e le Procuratie Nuove, di V. Scamozzi
e B. Longhena; sulla piazzetta, la splendida Libreria Marciana, di I. Sansovino,
che conserva all'interno dipinti del sec. XVI e codici miniati. A parte l'eccezionale
complesso marciano, esempi del periodo gotico sono la chiesa domenicana dei
SS. Giovanni e Paolo (S. Zanipolo), costruita fra il 1246 e il 1430; l'interno
a tre navate, vasto e solenne, conserva numerose tombe e opere d'arte, tra cui
il bellissimo monumento a Pietro Mocenigo, di P. Lombardo (1476) e il polittico
di S. Vincenzo Ferreri di G. Bellini. Nella cinquecentesca Cappella del Rosario,
notevoli tele del Veronese. Altra grande chiesa gotica è la francescana
S. Maria Gloriosa dei Frari, costruita fra il 1338 e il 1443; anch'essa conserva
monumenti ai dogi F. Foscari, di A. e P. Bregno, e N. Tron, di A. Rizzo; un
trittico con Madonna e Santi di G. Bellini (1488); e soprattutto due celebri
tele di Tiziano, l'Assunta (1518) e la Madonna di Ca' Pesaro (1526). Numerose
altre costruzioni risalgono al sec. XIV, soprattutto edifici civili lungo il
Canal Grande e nelle zone di campo S. Maria Mater Domini, campo S. Polo, campo
S. Zaccaria. Fra le chiese, S. Maria Mater Domini, dalla facciata rinascimentale,
conserva opere di Tintoretto e V. Catena. Splendido è il gotico veneziano
del sec. XV, al quale appartengono alcuni dei massimi capolavori della fase
“fiorita” di questo stile, quali l'armoniosa Ca' Foscari e la famosa
Ca' d'Oro, opera di B. Bon e M. Raverti (1421-30), al cui interno ha sede la
Galleria Franchetti, interessante collezione di dipinti, marmi, mobili, bronzi
e altri oggetti artistici dei sec. XV-XVII. Ai sec. XIV-XV risalgono le gotiche
chiese di S. Stefano (all'interno tele del Tintoretto) e dei Carmini; tardogotiche
sono invece la caratteristica Madonna dell'Orto (dipinti di Cima da Conegliano,
G. Bellini, tele del Tintoretto), S. Giobbe e S. Giovanni in Bragora, dalla
tipica facciata. Le prime costruzioni di gusto rinascimentale a Venezia datano
alla seconda metà del sec. XV e presentano una commistione fra i motivi
del tardogotico veneziano e lo stile rinascimentale lombardo. Capolavoro di
P. e T. Lombardo è la chiesa di S. Maria dei Miracoli (1481-89), di elegante
e raffinata struttura e decorazione. Agli stessi architetti si devono la Scuola
di S. Giovanni Evangelista (1481) e l'elegante Scuola Grande di S. Marco (1487-90),
oggi ospedale civile. In ambito analogo si collocano le numerose opere di M.
Coducci, fra le quali l'elegante facciata di S. Zaccaria (1483-1500), animata
da risalti a nicchie e colonnine, con un perfetto equilibrio tra pieni e vuoti;
S. Maria Formosa (iniziata nel 1492), con interno ricco di opere d'arte; il
palazzo Corner-Spinelli sul Canal Grande; S. Giovanni Crisostomo (1497-1504),
a croce greca; il palazzo Vendramin-Calergi, completato dai Lombardo. Caratteristiche
di questo periodo sono le Scuole delle confraternite, ornate da dipinti dei
maggiori maestri attivi a Venezia: tra queste la Scuola di S. Marco, decorata
da G. Bellini, e quella di S. Giorgio degli Schiavoni, decorata da V. Carpaccio.
Celebre esempio di scultura rinascimentale è il monumento equestre a
Bartolomeo Colleoni del Verrocchio, in campo S. Zanipolo. Nel sec. XVI, fra
i più fecondi dell'arte veneziana, numerose sorsero le chiese e le costruzioni
civili. A I. Sansovino si devono palazzo Corner, dalla grandiosa e classica
architettura, e la grande chiesa di S. Francesco della Vigna. Alla prima metà
del secolo datano anche le opere dello Scarpagnino, tra cui la ricostruzione
della chiesa di S. Giovanni Elemosinario, e la Scuola di S. Rocco; quest'ultima
conserva una notevolissima serie di tele del Tintoretto, fra cui di massimo
interesse le Scene della Passione; inoltre opere di Tiziano e Giorgione. Di
più elevato livello architettonico l'opera di M. Sanmicheli , autore,
tra l'altro, del palazzo Grimani, di possente struttura. Nella seconda metà
del secolo è da ricordare l'attività del Palladio, che lasciò
a Venezia due capolavori: la chiesa di S. Giorgio, di nobilissime forme sia
in facciata sia nel luminoso interno, e il Redentore, di struttura elegante
e maestosa. Fra gli altri monumenti del sec. XVI vanno ricordati infine la chiesa
di S. Sebastiano, ornata da splendidi dipinti del Veronese; S. Trovaso (opere
del Tintoretto); S. Salvatore, con facciata barocca; e i due celebri ponti,
di Rialto (1592) e dei Sospiri (1600). Il sec. XVII è caratterizzato
soprattutto dall'attività di B. Longhena, il cui capolavoro è
la chiesa di S. Maria della Salute, a pianta ottagonale, sormontata da una grandiosa
cupola. A Longhena si devono anche l'imponente palazzo Rezzonico, oggi Museo
del Settecento Veneziano (ricchissima raccolta di opere d'artigianato e d'arte,
tra cui tele di F. Guardi e P. Longhi) e il fastoso palazzo Pesaro, sede della
Galleria d'Arte Moderna e del Museo Orientale. Altri edifici secenteschi sono
la chiesa di S. Maria Zobenigo all'interno e quella di S. Cassiano, entrambe
con opere del Tintoretto. Fra le meno significative le architetture del sec.
XVIII, tra cui spiccano la Scuola dei Carmini (tele di G. B. Tiepolo) e le chiese
dei Gesuiti (di G. Massari, all'interno Il martirio di San Lorenzo, capolavoro
di Tiziano), di S. Vitale e di S. Rocco (all'interno tele del Tintoretto). Una
delle più eleganti dimore private del Settecento è il palazzo
Labia, celebre per gli affreschi del Tiepolo. Fra le costruzioni neoclassiche,
interessanti il teatro La Fenice (1790), purtroppo andato quasi completamente
distrutto nell’incendio del 1996, e la chiesa di S. Silvestro (sec. XIX).
La città di Venezia, rimasta praticamente inalterata dal sec. XIX nel
suo nucleo storico, si è espansa soprattutto sulla terraferma, con anonimi
quartieri moderni; tra i maggiori interventi urbanistici vanno ricordati la
sistemazione del Lido e quella della Biennale Internazionale d'Arte. Alla fine
degli anni Settanta del XX secolo prevalse il proposito del riuso e della riorganizzazione
del vecchio tessuto urbano: così alla Giudecca G. Valle realizzò
un nuovo insediamento di edilizia economico-popolare (1980-86), e V. Gregotti
creò nell'area di Canaregio un quartiere residenziale (1984). Per lo
sviluppo della pittura veneziana, si veda alla voce Veneto, Scuola veneta.
Artigianato: la ceramica
La città fu un importante centro di produzione ceramica, iniziata con
la lavorazione “a sgraffio”. Nel sec. XVI le maioliche veneziane
furono caratterizzate da un ornato in turchino a motivi di foglie, fiori e frutti
di gusto orientale su fondo azzurrino tendente al grigio. In questo campo si
distinsero Maestro Lodovico, Maestro Iacopo da Pesaro e Domenico da Venezia.
Nei sec. XVII-XVIII, per influsso dei “bianchi” importati da Faenza,
Lodi e Savona, si diffuse la moda dei latesini, che divennero una delle maggiori
espressioni artistiche di questo centro. La prima fabbrica di porcellana venne
fondata a Venezia nel 1720 da Francesco Vezzi, e produsse una pasta dura decorata
per lo più a motivi orientali. Una seconda fu fondata nel 1761 da Nathaniel
F. Hewelcke, proveniente da Meissen, ma la più famosa è quella
fondata nel 1764 da G. Cozzi, che produsse porcellane di pasta dura ibrida,
dalle forme rococò molto mosse e dalla ricca tavolozza dominata da particolari
tonalità di rosso ferro, verde smeraldo e violetto, con motivi di fiori,
insetti, cineserie, monogrammi. La fabbrica produsse anche biscuit modellati
con prezioso gusto miniaturistico.
Artigianato: il merletto
Il merletto ad ago fu una creazione veneziana maturata nel corso del Cinquecento
col passaggio dal reticello al “punto in aria”, cioè a un
tipo di merletto che non appoggia su alcuna impalcatura di base; questo aprì
poi la via a trine sempre più perfette e complicate, di alto valore d'arte.
La trina di Venezia divenne quasi un'industria nel Seicento, con la creazione
di manifatture e laboratori; i modelli furono gelosamente custoditi. Dalla trina
di Venezia si giunse nel sec. XVII al sontuoso merletto eseguito col “punto
tagliato a fogliame”, più noto come gros point de Venice, con effetti
di rilievo ottenuti da un doppio e triplice lavoro. Nel Settecento venne prodotta
la trina detta “a roselline”, col fondo animato da nodini e sbarrette.
Altra trina è quella di Burano, col fondo a maglie tonde dal caratteristico
effetto ondeggiante.
Musei
Le Gallerie dell'Accademia costituiscono una splendida raccolta di pittura veneta
dal sec. XIV al XVIII. Fra le opere più importanti sono varie Madonne
di G. Bellini, il ciclo della Leggenda di S. Orsola di V. Carpaccio, dipinti
del Mantegna, di Piero della Francesca, Giorgione (La Tempesta), Tiziano, Veronese,
Tintoretto (Miracoli di S. Marco); inoltre di Paolo Veneziano, Iacobello del
Fiore, Cima da Conegliano, C. Tura, P. Bordone, Palma il Vecchio, L. Lotto,
G. B. Tiepolo, G. B. Piazzetta, R. Carriera, ecc. Assai significativa anche
la pinacoteca della Fondazione Querini-Stampalia, con opere di Catarino, G.
Bellini, Palma il Vecchio, A. Schiavone, G. B. Tiepolo, P. Longhi, A. Longhi,
ecc. Il Museo Correr, che ha sede nell'ala napoleonica delle Procuratie, conserva
notevoli opere dei Bellini, di Carpaccio, C. Tura, L. Lotto, Antonello da Messina
e altri, oltre a bronzetti, mobili, ceramiche dal sec. XIV al XVIII. Il Museo
Archeologico vanta notevoli sculture greche e romane e altro materiale, soprattutto
di età ellenistica. Degna di nota infine la Fondazione P. Guggenheim,
interessante raccolta di arte contemporanea, soprattutto delle cosiddette “avanguardie
storiche” della prima metà del Novecento.
Istituti culturali
L'Archivio di Stato è uno dei maggiori d'Italia e in assoluto del mondo
per l'importanza delle sue fonti storiche. Le due sezioni fondamentali sono
quella degli archivi antichi dello stato (fino al 1797) e quella degli archivi
moderni, dal governo democratico (1797-98) in poi. La Biblioteca Marciana è
trattata al lemma marciano.
Spettacolo
Il primo spettacolo accertato è un'Annunciazione recitata davanti al
doge nel 1267, ma anche prima dovevano esistere rappresentazioni sacre, esibizioni
di saltimbanchi e dialoghi di buffoni; poi, verso la fine del Medioevo, celebrazioni
delle solennità civili e inoltre cortei carnevaleschi, abbattimenti,
regate e altre manifestazioni a metà tra spettacolo e sport. Nel sec.
XV presero sviluppo anche le momarie, pantomime a sfondo comico d'origine agreste
che avevano in città complesse elaborazioni spettacolari con musiche,
danze, elementi allegorici e che erano affidate alle Compagnie della Calza,
associazioni di nobili cui si dovettero nel Cinquecento anche i primi saggi
di teatro umanistico. Nel 1508 un decreto della Signoria proibì tutte
le “recite e rappresentazioni comiche o tragiche”. Di fatto però
tale divieto fu inefficace e nei secoli successivi, sino alla fine della Repubblica,
vi fu un'intensa fioritura di teatri e spettacoli, importanti sia dal punto
di vista organizzativo sia sotto l'aspetto artistico: i comici dell'Arte e i
migliori scenografi, il melodramma di C. Monteverdi, di F. Cavalli, di A. Vivaldi,
di B. Galuppi, i libretti di Zeno e di P. Metastasio, le novità di C.
Goldoni, C. Gozzi. Dal Teatro Vecchio di San Cassian, aperto nel 1580 ca., a
La Fenice, inaugurata nel 1792, passando per i teatri dei SS. Giovanni e Paolo,
di San Luca, di San Moisè, di Sant'Angelo, di San Samuele ecc., moltissime,
più che in ogni altra città europea contemporanea, erano le sale
in vivace e pittoresca concorrenza tra loro. L'Ottocento vide numerose prime
di opere di G. Rossini e di G. Verdi a La Fenice (divenuta poi ente autonomo
nel 1936), stagioni di prosa al Goldoni, compagnie dialettali al Camploy (l'ex
San Samuele) e in altre sedi. Nel Novecento Venezia diventò, anche dal
punto di vista teatrale, provincia. Fanno eccezione, a partire dagli anni Trenta,
le manifestazioni, organizzate nell'ambito della Biennale, dei Festival internazionali
del cinema (si veda per esempio la Mostra internazionale d'arte cinematografica),
del teatro e della musica contemporanea (una delle più importanti rassegne
della produzione musicale contemporanea, che ha ospitato in prima esecuzione
alcune delle più significative composizioni del sec. XX, tra cui l'opera
La carriera di un libertino e il Canticum sacrum in honorem Sancti Marci nominis
di I. Stravinskij). Uno dei punti di forza della vita musicale della città
è anche il Conservatorio Benedetto Marcello (inaugurato nel 1877). Notevole
attività sul piano delle ricerche musicologiche, con particolare riguardo
per gli studi sulla storia del teatro musicale, svolge l'Istituto per le lettere,
la musica, il teatro veneto della Fondazione G. Cini, sede di congressi e di
corsi internazionali di alta cultura. Da ricordare anche le attività
del Centro delle arti e del costume di palazzo Grassi. Dal 1974 i vari festival
hanno iniziato un'opera di riscoperta e di riutilizzazione di sedi teatrabili
nei più diversi quartieri cittadini, alla ricerca di un pubblico che
comprenda strati sempre più vasti della popolazione.